Pronto soccorso, la notte dei senza fissa dimora «Siamo una famiglia, condividiamo la povertà»

Arrivano la sera, intorno alle 20, quando la sala d’aspetto del pronto soccorso è meno affollata, e vanno via la mattina presto, «per non disturbare». La notte passa alla meno peggio, dormicchiando sulle sedie, la giornata la trascorrono girando tra le piazze del centro storico catanese, dove puntano sulla generosità dei catanesi per prendere un caffè e fumare una sigaretta. Cercarsi un lavoro? Ci provano, ma in giro non c’è niente. Protagonisti di questa storia sono i senza fissa dimora che ogni notte, da circa un anno e mezzo, trovano riparo nelle stanze d’attesa dell’ospedale Garibaldi di piazza Santa Maria di Gesù e al Vittorio Emanuele di via Plebiscito.

Per lo più lavoratori che hanno perso il posto e non riescono, nonostante i tentativi, a trovarne un altro che permetta loro di vivere in modo dignitoso. Come Mimmo, 48 anni, che lavorava come giostraio a piazza Viceré. «Ho due figli che stanno con la mamma in Romania – racconta a Meridionews – e uno di 25 anni, avuto dal primo matrimonio, che non mi pensa». Ha vissuto per tre mesi in un dormitorio di emergenza, ma le turnazioni lo hanno costretto a lasciarlo. «La Caritas (che intorno alle 21 arriva per portare la cena, ndr) sa che siamo qua», aggiunge.

Insieme a lui ci sono i suoi compagni di sfortuna, con cui ormai forma «una famiglia». «Qua ci conosciamo tutti – dice Camillo, detto Carmelo – la notte siamo circa 12 o 14». Camillo ha otto figli, ma nessuno di loro è a conoscenza della sua condizione. «Mi piace dare e non ricevere – spiega per motivare la sua scelta – Ho anche un fratello ricco con cui non ho rapporti». Non mancano le lacrime mentre racconta la sua storia, ma qui lo rispettano perché mantiene la situazione sotto controllo. «Cerco di far rispettare le regole, perché se uno disturba ci andiamo di mezzo tutti».

I problemi del 40enne Salvo, invece, sono iniziati con la morte del padre, un anno e mezzo fa. «È dura ricominciare – dice il senza tetto che fino al 2010 lavorava con «l’arte dell’arrangiamento» – ma ce la sto mettendo tutta». Ha tre figlie e un figlio, di cui però non ha notizie. «Ti chiudono tutti la porta in faccia – dice amareggiato – e il Comune se ne frega. Ci dovremmo ribellare per i nostri diritti».

Per fortuna non tutti ignorano il problema. Gli angeli della Croce rossa italiana hanno soccorso Salvatore – che vive in strada da 15 anni – quando viveva in aeroporto. «Me ne fregavo della mia salute – racconta – ma a un certo punto mi si sono gonfiate le gambe così tanto che mi hanno portato all’ospedale, dove sono stato ricoverato e curato. I ragazzi della Croce rossa si sono presi cura di me ed è grazie a loro che ancora cammino».

Nel 2015 l’azienda di trasporti del camionista 54enne Felicio – il più sorridente del gruppo – è fallita, e dopo 35 anni di lavoro si è ritrovato «escluso dalla società, come nel film Il ricco e il povero», racconta con ironia. I familiari lo accusano di «essersi mangiato i soldi» e nonostante, lui dice, potrebbero permettersi «di comprare un Ferrari» si rifiutano di aiutarlo. «Lottiamo con l’indifferenza delle persone – aggiunge sottolineando quanto sia importante ricevere semplicemente un bicchiere d’acqua o un panino –. Da un anno e mezzo cerco un lavoro come guardiano, parcheggiatore o in un’autorimessa». 

Qualsiasi cosa, insomma, gli permetta di sopravvivere. «O mi accontento o mi accontento». Nella sala d’attesa del pronto soccorso questi signori hanno trovato compagnia, la loro più grande ricchezza. «La solitudine ti porta a pensare a chi eri e a cosa sei oggi – riflette Felicio – mentre se stai in mezzo alla gente puoi condividere una chiacchiera o un pezzo di pane». «Condividi la povertà», conclude. 


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