Condannato a tre anni e sei mesi per concorso esterno in estorsione aggravata dal metodo mafioso, si sarebbe avvalso dell’amico Lauricella, figlio del boss della Kalsa, perché intenzionato a innescare precise forme di risoluzione tipiche delle cosche mafiose. «Si era già affidato a lui per questioni non attinenti con la movida»
Processo Miccoli, le motivazioni della condanna «È stato il mandante che ha dato impulso a tutto»
«Noi gli diamo dieci a loro, a lui, e due te li tieni». Sarebbero racchiuse tutte in questo messaggio del 29 settembre 2010 indirizzato all’amico Mauro Lauricella e in altri dello stesso tenore le ragioni che hanno portato lo scorso ottobre il giudice Walter Turturici a condannare Fabrizio Miccoli a tre anni e sei mesi e al pagamento di oltre mille euro di multa. L’ex capitano rosanero, processato in abbreviato, era accusato di concorso esterno in estorsione aggravata dal metodo mafioso. Secondo la ricostruzione dell’accusa, che a settembre 2016 aveva chiesto di archiviare la sua posizione, salvo poi – dopo il rigetto del gup – chiederne la condanna a quattro anni, Miccoli avrebbe tentato di recuperare il credito vantato da Giorgio Gasparini, ex fisioterapista del Palermo, nei confronti di Andrea Graffagnini, l’agente dei vip. I due, infatti, erano stati soci insieme della discoteca di Isola delle Femmine I Paparazzi. Per farlo si sarebbe rivolto proprio all’amico Mauro Lauricella, figlio del boss della Kalsa Antonino detto u scintilluni, processato a parte insieme a Gioacchino Alioto: per entrambi il reato è stato riqualificato nel meno grave di violenza privata.
Il pm Maurizio Bonaccorso aveva chiesto l’archiviazione ipotizzando, piuttosto che il reato di estorsione, l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Due reati che si distinguono fra loro non per la materialità del fatto, piuttosto per l’intenzionalità che, a prescindere dalla portata delle intimidazioni, si trasforma in estorsione solo quando si cerca di attuare una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria. Dopo il rigetto del giudice, però, l’accusa è tornata a cavalcare l’impianto originario, sino a chiedere e ottenere la condanna di Miccoli. Il suo contributo alla realizzazione del reato, secondo il giudice, sarebbe stato «variegato e reiterato». «L’imputato – si legge nelle oltre 300 pagine a sua firma – non solo ha assolto il ruolo di mandante determinatore attraverso il conferimento dell’incarico a Mauro Lauricella, in tal modo dando l’impulso decisivo ad una vicenda che senza la sua iniziativa non si sarebbe mai verificata, ma ha altresì ideato e deliberato l’attribuzione di un compenso allo stesso Lauricella sotto forma di decurtazione della somma destinata a Giorgio Gasparini. Del resto la consapevole deliberazione da parte di Fabrizio Miccoli di attribuire un compenso a Mauro Lauricella appare frutto di una volontà ferma e decisa».
Per il giudice, poi, Miccoli era consapevole del «profilo soggettivo» e delle «modalità di azione» del suo incaricato. «Il conferimento di detto incarico è avvenuto nella piena consapevolezza da parte dell’imputato del peculiare profilo personale di Mauro Lauricella – scrive Turturici -. In particolare Miccoli ben sapeva che era il figlio di un soggetto resosi latitante per reati di stampo mafioso». Il reato che gli viene contestato, dunque, si inserisce in un quadro tanto significativo quanto allarmante per il giudice, in concomitanza della latitanza del boss della Kalsa: «Fabrizio Miccoli, che con Mauro Lauricella ha condiviso oltre all’amicizia e alle frequentazioni con soggetti gravemente controindicati (si pensi a Francesco Guttadauro) un quadro di disvalori incentrato sull’avversione nei confronti delle istituzioni preposte ad assicurare il rispetto della legge, ha inteso avvalersi in modo deliberato e consapevole della distorta forma di autorità che in contesti atavicamente caratterizzati dalla presenza della criminalità organizzata quale purtroppo quello palermitano sono in grado di esercitare soggetti appartenenti o comunque sicuramente contigui alle consorterie mafiose».
L’ex bomber, insomma, secondo il giudice Turturici si sarebbe avvalso dell’amico figlio del boss all’epoca latitante proprio perché intenzionato a innescare precise forme di risoluzione tipiche delle cosche mafiose. «Tanto si desume agevolmente dal fatto che Fabrizio Miccoli risulta essersi avvalso di Mauro Lauricella anche al fine di recuperare l’autovettura rubata a un calciatore del Palermo, nonché al fine di risolvere la controversia che lo opponeva al proprietario dell’appartamento di Palermo in cui abitava la sua famiglia. È evidente che il recupero di un’autovettura rubata o la risoluzione di una controversia di natura locatizia sono questioni che nulla hanno a che fare con la cosiddetta movida palermitana – sottolinea ancora il magistrato -. Si tratta invece di questioni di cui Miccoli ha investito Lauricella proprio in ragione del peculiare profilo personale di quest’ultimo, ossia quello di essere il figlio di un latitante per fatti di mafia».