Paolo Borsellino, la strage di via D’Amelio e i processi. Dopo 31 anni restano ancora troppe mezze verità

Borsellino uno, bis, ter, quater e tanto altro ancora. Muoversi a proprio agio tra le pagine della storia giudiziaria dei processi nati dopo la strage compiuta in via Mariano D’Amelio il 19 luglio 1992 è un compito tutt’altro che semplice. Anche perché si tratta di una storia in cui titoli di coda sono ancora lontani e, forse, non arriveranno mai. Trentuno anni dopo non c’è una verità granitica e il sapore è ancora più amaro perché questo anniversario arriva a pochi mesi di distanza dall’arresto dell’ultimo boss stragista: Matteo Messina Denaro. In questo articolo, strutturato come uno spiegone, abbiamo cercato di fare un po’ di ordine. Il punto di partenza è l’attentato, avvenuto alle 16.58, in cui morirono il procuratore Paolo Borsellino e cinque agenti che facevano parte della scorta: Agostino Catalano, Manuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Quel giorno, gli agenti di polizia intervenuti sul posto si trovarono davanti «uno scenario agghiacciante con decine di auto distrutte e dei corpi orrendamente dilaniati dall’esplosione», si legge nel rapporto dell’epoca. Per compiere l’attentato vennero utilizzati circa cento chili di tritolo piazzati dentro una macchina Fiat 126. Una delle tante che stazionavano, in barba a qualsiasi dispositivo di sicurezza e senza l’istituzione di una zona rimozione, davanti al palazzo. Unico sopravvissuto, in mezzo a decine di altri feriti, Antonino Vullo. L’agente raccontò del viaggio dalla casa a mare a Villagrazia di Carini – dove Borsellino aveva visto la tappa del Tour de France vinta dall’americano Andrew Hampsten – a via D’Amelio, dove abitava sua madre, e gli attimi immediatamente prima dell’esplosione. Tra gli aneddoti messi nero su bianco nel verbale della polizia c’è anche una chiamata anonima che indicava, con nome e cognome, i presunti autori della strage. Si scoprì dopo che a effettuare la telefonata al 113 era stato un travestito originario della Tunisia con cui uno dei due uomini che venivano accusati aveva avuto dei rapporti. Uno dei dettagli da non trascurare è, però, quello legato al racconto di Giuseppe Orofino. L’uomo, titolare di una carrozzeria nel quartiere Brancaccio, si recò al commissariato di zona all’indomani della strage per raccontare il furto delle targhe, il bollo e l’assicurazione di una Fiat 126 bianca. Un anno dopo, il carrozziere Orofino finisce in carcere con l’accusa di favoreggiamento.

Qualche mese dopo la strage, nel settembre del 1992, viene arrestato uno dei personaggi chiave di questa storia: il finto pentito Vincenzo Scarantino, allora 27enne e originario della Guadagna. Non è un boss di primo piano, ha dei precedenti per rapina, e all’apparenza sembra tutto fuorché il custode dei segreti della strage. Dietro il suo nome e i suoi racconti invece si nasconderà uno dei più grossi depistaggi della storia della Repubblica. A Scarantino arriva il gruppo investigativo speciale istituito dopo l’attentato e presieduto dal capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Il giovane pregiudicato della Guadagna si autoaccusa del furto della Fiat 126 utilizzata per la strage spiegando di avere agito su mandato del cognato Salvatore Profeta. Successivamente, indica Orofino come il meccanico che si occupò di piazzare il tritolo all’interno del mezzo. Le dichiarazioni non si fermano qui: Scarantino svela anche i nomi degli esecutori materiali della strage tra cui spicca il capo della famiglia di Santa Maria di Gesù Pietro Aglieri. Per la sentenza del primo processo bisogna aspettare il 27 gennaio del 1996. Qualche mese prima, il 26 luglio del 1995, Scarantino, decide di farsi intervistare telefonicamente dal giornalista palermitano Angelo Mangano di Studio Aperto. In quella occasione, il finto pentito svela per la prima volta la gigantesca montatura sulla strage, smentendo tutto quello che aveva detto agli inquirenti. Parla delle torture al carcere di Pianosa, spiega di avere accusato persone innocenti e di avere fatto determinate ricostruzioni dopo avere letto i giornali. Quell’intervista, dopo la prima messa in onda, viene distrutta e fatta sparire dai server su ordine della procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra. La corte d’Assise di Caltanissetta, competente per i reati che riguardano i magistrati in servizio a Palermo, non ritenne veritiera la ritrazione e la corte presieduta dal giudice Renato Di Natale, con a latere Maria Carmela Giannazzo e Grazia Maria Torreggrossa, il 27 gennaio del 1996 condanna a 18 anni di reclusione Scarantino mentre l’ergastolo viene comminato al cognato Salvatore Profeta, a Pietro Scotto e al carrozziere Giuseppe Orofino.

Sempre nel 1996 comincia il cosiddetto processo Borsellino bis. Diciotto imputati tra cui Salvatore Riina e Giuseppe Graviano. Nel 1998, Scarantino ritratta nuovamente ma questa volta in aula e puntando il dito contro La Barbera. I magistrati, tra cui Nino Di Matteo, non gli credono e quella versione della ritrattazione viene definita «sicuramente falsa». Sempre nel 1998 inizia il processo Borsellino ter. Aumenta il numero di pentiti, tra cui Giovanni Brusca, e vengono rinviati a giudizio in 27. C’è tutto il gotha di Cosa nostra: da Bernardo Provenzano al boss catanese Nitto Santapola, fino a Piddu Madonia.

Il 1999 è un anno di sentenze: il 13 febbraio c’è quella di primo grado del Borsellino bis – corte presieduta dal giudice Pietro Falcone – con sette ergastoli, tra cui Riina e Graviano, e diverse condanne per associazione mafiosa. Un mese prima – a gennaio 1999 – il passaggio in Appello del primo processo: viene confermata la condanna a 18 anni per Scarantino – ma viene ritenuto inattendibile – e quella all’ergastolo per il cognato Salvatore Profeta. Pietro Scotto viene assolto mentre il carrozziere Giuseppe Orofino passa dal carcere a vita a una condanna a nove anni. Sentenza poi confermata dalla Cassazione a dicembre del 2002. Orofino successivamente chiede e ottiene la revisione del processo e viene assolto da tutte le accuse, beneficiando di un maxi risarcimento per ingiusta detenzione. Il 9 dicembre 1999 la corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Carmelo Zuccaro, porta a sentenza di primo grado il processo Borsellino ter. Gli ergastoli sono 17, mentre gli anni di reclusione complessivi per chi faceva parte della commissione regionale e provinciale di Cosa nostra sono 175. Esito che viene parzialmente rivisto a febbraio 2002 in Appello. Un anno dopo, la Cassazione rinvia alla corte di Catania per l’assoluzione per il reato di strage nei confronti di alcuni imputati, tra cui Benedetto Santapaola.

In mezzo al lungo percorso che ha portato alle sentenze nei confronti dei mafiosi c’è un fascicolo parallelo sui cosiddetti mandanti occulti. Dal 1993 in poi, sono state iscritte nel registro degli indagati e poi stralciate decine di persone, compresi Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Tra il 2008 e il 2009 ci sono due momenti fondamentali. Si pente Gaspare Spatuzza, affiliato alla famiglia mafiosa di Brancaccio. Si autoaccusa del furto della 126 e svela tutta la fase precedente alla strage. Un anno dopo Scarantino, Candura e Andriotta spiegano chi c’è dietro il loro falso pentimento e accusano ancora una volta La Barbera, che intanto era deceduto nel 2002. La procura di Caltanissetta riapre un nuovo corso delle indagini e alle rivelazioni di Spatuzza si aggiungono quelle dell’ex autista di Giuseppe Graviano: Fabio Tranchina. Dalle dichiarazioni di Spatuzza viene istruito il processo Borsellino quater sul depistaggio alle indagini sulla strage di via D’Amelio. La sentenza di primo grado è dell’aprile 2017. La corte presieduta da Antonio Balsamo condanna i cinque imputati: ergastolo ai boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e dieci anni di carcere ciascuno ai falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta, prescritto il reato di calunnia pluriaggravata dell’altro falso pentito, Scarantino. Esito confermato a novembre 2019 in appello e dalla Cassazione a ottobre 2021. I giudici non hanno dubbi. Le bugie dei pentiti sono state «una delle pagine più vergognose e tragiche della storia giudiziaria italiana».

Sempre sulla vicenda depistaggio, sono finiti a processo i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. A luglio dello scorso anno, il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Bo e Mattei, accusati di calunnia aggravata in concorso. Il terzo imputato, Ribaudo, è stato invece assolto «perché il fatto non costituisce reato». Per tutti è caduta l’aggravante mafiosa. Gli uomini delle forze dell’ordine, che facevano parte del pool investigativo diretto da La Barbera, avrebbero costruito a tavolino le dichiarazioni di Scarantino e soci. Imbeccandolo e costringendolo a mentire. La procura aveva chiesto di condannare Bo a undici anni e dieci mesi e a nove anni e mezzo Mattei e Ribaudo. Contro questa sentenza i procuratori di Caltanissetta hanno presentato ricorso. Oggi intanto è fissata una nuova udienza del processo d’appello sulle stragi in cui è imputato Matteo Messina Denaro.

Il boss di Castelvetrano, quando era ancora latitante, venne condannato nel processo di primo grado all’ergastolo. In una storia di misteri e mezze verità, resta ancora nell’ombra cosa ne sia stato dell’agenda rossa di Borsellino, prelevata dal luogo della strage subito dopo l’esplosione. Per questa vicenda è finito a processo, venendo scagionato, Giovanni Arcangioli, l’ufficiale dei carabinieri immortalato in via Autonomia Siciliana, tra le 17.20 e le 17.30 del 19 luglio 1992 con in mano la borsa del giudice appena ucciso. Il militare disse di avere consegnato l’oggetto – ma non l’agenda che a suo dire non era all’interno – ai giudici Giuseppe Ayala e Vittorio Teresi. Il primo però ha smentito questa versione, definendola «di pura fantasia» e ha detto di essersi ritrovato in mano la borsa, che era sul sedile posteriore, indicando di averla affidata «immediatamente» a un ufficiale dei carabinieri. Ayala ha smentito anche che l’uomo fosse Arcangioli, perché «non era in divisa». Sempre nel capitolo del presunto depistaggio deve essere inserita l’archiviazione, arrivata nel 2021, nei confronti dei magistrati Carmelo Petralia e Annamaria Palma. Nei loro confronti, era stato aperto un fascicolo per calunnia e la procura di Messina aveva disposto degli accertamenti scientifici su alcune vecchie cassette con gli interrogatori del falso pentito Scarantino.


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