Sostenere che il Sud sia una zavorra per il Nord è falso. A sostenerlo è la Svimez, l’Agenzia per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che dedica un apposito capitolo a sviscerare dati che smontano questa tesi e che, anzi, descrivono una realtà diversa, in cui Settentrione e Meridione sono strettamente dipendenti. «La teoria che il Sud drena risorse dal Nord – si legge nel rapporto 2018 – frenando lo slancio della locomotiva del Paese ha rappresentato per troppi anni un comodo alibi, con il quale la parte più ricca del Paese tendeva sostanzialmente ad autoassolversi dalle proprie responsabilità, nell’illusione che, liberandosi della zavorra, sarebbe tornata a crescere».
Numeri alla mano, i ricercatori elencano una serie di fatti che definiscono «incontestabili». Tutto si basa sulla quantificazione delle risorse, economiche e umane, che si spostano dal Settentrione al Mezzogiorno e viceversa. Se da un lato si ci sono «i trasferimenti netti di risorse pubbliche che da Nord vanno a Sud», dall’altro ci sono «corposi trasferimenti di risorse a vantaggio del Nord».
La Svimez ha calcolato che «20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle Regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi». Come? Il primo punto è legato ai consumi. Secondo le stime degli economisti la domanda interna per consumi e investimenti del Mezzogiorno attiva circa il 14 per cento del Prodotto interno lordo del Centro Nord. È cioè sulle spese dei meridionali che si fonda un pezzo di ricchezza del resto del Paese. Una fetta non indifferente. Il mercato di destinazione del Sud genera al Centro Nord un Pil pari alla metà di quello che genera tutto il mercato estero. Stando ai numeri, per rispondere alla domanda di consumo e investimento dei meridionali, al Nord si è prodotta ricchezza per un ammontare di 186 miliardi di euro.
«Centro-Nord e Mezzogiorno crescono o arretrano insieme», sostiene l’analisi della Svimez. A questa interdipendenza contribuiscono quantomeno altri due fattori. Il primo è legato alle banche. Gli economisti ricordano come a Sud negli ultimi anni siano proliferati istituti di proprietà non meridionale e che allo stesso tempo alcune banche hanno mantenuto la sede legale nel Mezzogiorno, ma sono entrate e far parte di gruppi bancari del Centro Nord. Questo ha favorito «una tendenza in atto da tempo di impiegare la raccolta bancaria delle Regioni meridionali per finanziare investimenti maggiormente remunerativi e meno rischiosi nelle aree più produttive del Paese, invece di utilizzarla per dare credito al sistema produttivo locale».
C’è infine la questione delle risorse umane: l’emigrazione, soprattutto di laureati, da Sud a Nord. Nel 2016/17 il 25 per cento di universitari meridionali era iscritto in un ateneo del Nord. Questo significa che 175mila giovani prendono casa, comprano libri, mangiano, vivono, consumano nelle Regioni settentrionali, muovendo consumi pubblici e privati pari a tre miliardi all’anno (comprensivi delle minori risorse che vanno alle Università del Sud per la perdita di studenti e delle spese private sostenute dalle famiglie per mantenere gli studenti fuori-sede). Ricchezza che viceversa il Sud perde. Ma per arrivare alle soglie dell’università, questi giovani si sono dovuti formare nel Mezzogiorno. Ecco, la Svimez ha quantificato in due miliardi di euro la spesa pubblica investita in istruzione per questo esercito di promettenti giovani. Spesa mai recuperata e che invece produrrà i suoi frutti al Nord che invece non ha speso un euro per quei giovani.
«Inevitabilmente – concludono gli economisti – i risultati economici e il progresso sociale del Nord e del Sud dipendono dal destino dell’altra. La nozione di dipendenza del Sud andrebbe perciò più correttamente sostituita con quella di interdipendenza (mutuamente benefica) tra due territori che non sono sistemi a parte, ma aree strutturalmente differenti per diverse ragioni, e strettamente integrate e interdipendenti che, necessariamente, tendono a crescere (e arretrare) insieme».
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