Pedalando sul mondo

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DelfinoAstuto – così si fa chiamare Antonio Tomaselli – ha trentun anni, ma dice che in realtà la sua età «va dai quattro ai quindici anni al massimo». Per lui il viaggio è «evoluzione e libertà» e una domanda non è mai banale.
Il suo desiderio è quello di pedalare per tutte le nazioni del continente, prestare servizio di volontariato nelle zone in via di sviluppo e «conoscere cosi le realtà sociali per come sono o per quello che trasmettono, senza filtri né distorsioni dovuti ai media e al criterio che detta il mercato dell’informazione». I colori del suo viaggio, non a caso, sono quelli della bandiera della pace, «simbolo di unione nella diversità e rispetto dell’altro proprio nella sua unicità».

Fino ad oggi ha lavorato in cinque diverse realtà, quattro nell’ambito dell’educazione e in una con diversamente abili, dedicando circa otto mesi di questi ultimi due anni ad attività di volontariato.
Dopo la sua partenza, sua sorella Emanuela e un gruppo di amici, hanno creato Peace zone, un’area di pace che si muove a fianco del suo vagabondare e che prova, attraverso le foto di Antonio e quindi attraverso i suoi occhi e le sue esperienze, a sensibilizzare e rendere partecipi quante più persone nella realtà catanese e non solo. Antonio e gli amici della Peace Zone hanno anche lavorato ad un primo libro-diario che attraverso le foto e alcuni testi servirà a sostenere il progetto e a creare nuove prospettive per l’associazione che lo accompagna e supporta, Matite di Gioia.
Quest’anno Peace Zone è alla sua seconda edizione e non è solo la mostra fotografica del viaggio in bicicletta, Alaska-Patagonia. 45000 km di diversità, del biker Antonio, ma una vera e propria “Zona di Pace” dove poter stare insieme, ascoltare musica dal vivo, vedere spettacoli di giocoleria e soprattutto un’occasione per diffondere informazione su realtà spesso dimenticate, come quella degli indigeni americani e dei bambini sfruttati nei quartieri degradati di tutto il mondo.

Abbiamo intervistato DelfinoAstuto mentre si trovava, a una decina di chilometri dalla frontiera brasiliana, nell’ultimo paesino venezuelano, Santa Elena De Uairen: per lui, il posto più mistico e magico che fino ad oggi ha avuto la fortuna di scoprire.

Antonio, quando hai pensato per la prima volta di intraprendere la tua esperienza di biker viaggiatore? Cosa ti ha spinto a farla?
«La scelta è stata improvvisa. Mi è venuta in India, nel 2005, mentre stavo terminando l’esperienza di volontariato con i lebbrosi di Calcutta e con i bimbi di strada, quando ho sognato per tre notti consecutive di viaggiare in bici. Al terzo risveglio avevo già deciso. La conferma è arrivata pochi giorni dopo, quando mio padre mi ha raccontato di una mia cugina che aveva sognato che viaggiavo in bici. Cosi ho iniziato a darle una forma e a lavorare in questa direzione e non senza difficoltà, con forti contrasti interni e non solo. Il 28 aprile del 2008 sono partito da Roma verso il freddo Anchorage, in Alaska, da dove è cominciato il mio cammino per il “nuovo mondo”. La libertà nel vivere e nelle scelte che prendo, e la grandissima voglia di mettere del mio per contrastare problematiche sociali che odio, sono state l’impulso principale».

Quindi in bici perché l’hai sognato?
«Ritengo che camminare sia il modo migliore per stare a contatto con le milioni di realtà che ti si possono presentare, però fare il mio viaggio camminando avrebbe preso troppo tempo e, visto che sono un sognatore ed ho tanti sogni, non posso stare tutta la vita a camminare e a fare la stessa cosa. La bici è il secondo mezzo più efficace dopo i propri piedi: ti permette di essere lento il giusto per osservare la vita ed entrare nelle sfaccettature delle società, ed è abbastanza veloce per coprire grandi distanze. Poi… In sogno pedalavo e questo è stato il motivo principale».

Come scegli le tappe del tuo viaggio e perché hai cominciato proprio dall’America?
«Le tappe non le ho mai scelte, seguo molto l’istinto. In linea di massima, conosco già l’itinerario che farò, nel senso che so da quale nazione parto e verso quale nazione vado, ma il cammino vero e proprio lo penso giorno per giorno. L’America l’ho scelta principalmente per due ragioni. La prima è legata alla mia grande passione per l’avventura e per l’aspetto antropologico. Il continente americano ha tutto da questo punto di vista: le grandi culture precolombiane, la forte presenza indigena,, l’area selvaggia più intrigante, la selva amazzonica, da sempre luogo che più di tutti mi ha attratto. La seconda ragione è legata all’aspetto sociale: non esiste nessun altro continente in cui sia tanto marcata la differenza tra nord e sud e tra classi alte e poveri all’interno di ogni singola nazione. È il continente con più contrasti e dove più abusi si compiono giornalmente, ed anche se gli States sono i principali responsabili con le politiche dello scorso secolo, il sistema capitalista occidentale in generale, quindi anche la nostra Europa e la mia Italia, sono co-responsabili ed io, parte del tutto, lo sono stato. Ecco il motivo principale della scelta di mandare tutto a puttane per fare quello che sento mio, vivere la vita con le regole di rispetto dell’altro e non continuare ad essere parte incosciente del sistema. O almeno cerco di camminare in questa direzione e di cammino ne ho tanto da fare, perché è difficile cambiare dall’oggi al domani la visione del mondo che ti hanno mostrato per decenni e i valori che da piccolo ti hanno affiancato come compagni di crescita».

Cosa hai incontrato nel tuo cammino?
«Mi piace la parola incontrato. Molti mi chiedono “cosa cerchi” e ogni volta sorrido. Cosa dovrei cercare? Tutto esiste già e tutto è dentro di noi. “Incontrato” è invece molto più indicato, anche se sarebbe ancora più corretto dire “rincontrato”, perché scopro per la prima volta, da parte mia, quello che è sempre esistito. Ed ho incontrato tutto: sorrisi e delusioni, gioie e frustrazioni, picchi e valli. Ho incontrato semplicemente lo splendido dono della vita e il sua bellissimo equilibrio nella diversità».

La mostra fotografica del tuo viaggio in bicicletta si chiama Alaska-Patagonia. 45000 km di diversità. Cos’è la diversità per te?
«Ricchezza, colore, completezza e altre mille parole che formano la vita nella sua unicità. Il nome del progetto tende ad esprimere in maniera semplice quella che è la mia visione del continente americano, del mondo e della natura umana in generale, diversa e sempre unica, diversità che arricchisce e completa, interazione tra culture e società in continua evoluzione e cambiamento».

Come ti ha cambiato, migliorato, stravolto questo tuo viaggio?
«Non sono in grado di rispondere a questa domanda. Sì, ho percepito enormi cambiamenti, profonde delusioni, contrasti continui nel vedere certe realtà, però io credo di star vivendo semplicemente l’evoluzione giornaliera che le esperienze e la vita ti costringono a fare. Dovrebbero essere gli amici o le persone che meglio mi hanno conosciuto a rispondere. Ad ogni modo, migliorato non mi piace come termine, perché cataloga il cambiamento, che in quanto tale non può essere né migliore né peggiore, ma solamente diverso. In generale, mi piace sempre meno dare un nome giudicante a qualcosa che non è né bella né brutta, né buona né cattiva, ma semplicemente è. Sicuramente sono diverso rispetto all’Antonio di due anni fa… Un proverbio indiano dice: “Il piede che si bagna per secondo nel fiume lo fa con acqua distinta dal primo”, come dire che il cambiamento è immediato e costante».

Come è nata l’idea di Peace Zone?
«Peace Zone nasce dall’idea di alcuni amici e di mia sorella per accompagnarmi nel mio viaggio e fare in modo di poterlo condividere con la mia terra. È stata concepita all’interno dell’associazione Matite di Gioia, fondata e pensata nella sua origine in concomitanza con il progetto del mio viaggio. È una simbiosi, è lo stesso corpo, la diversità che completa».

Attraverso Peace Zone realizzi lo scopo del tuo viaggio: veicolare il tuo messaggio di pace. Cosa vuoi suscitare in chi guarda la mostra?
«Il messaggio è molto personale e umile. Di fatto credo che si stia dando un peso molto più grande e caricando di responsabilità qualcosa che in realtà è nato con uno spirito diverso e molto semplice. Giornalmente condivido con chiunque incontro il mio messaggio e già questo per me è un risultato enorme. Informare è la maniera migliore, a mio avviso, per compiere quella sorta di rivoluzione che oggi serve per contrastare l'”informazione manipolata e controllata”. Per questo motivo, la “Peace Zone” vuole solamente essere un veicolo di trasmissione e sensibilizzare, cosi, realtà lontane da quelle in cui mi trovo adesso. Credo che ognuno debba poter prendere quello che desidera dalle mie foto. Considera che non sono un fotografo, né ho mai studiato fotografia, faccio foto perché è il mezzo che più mi piace e cresco giornalmente modificando il mio modo di osservare e la qualità della foto. Quello che più mi sta a cuore è provare a lasciare dentro ognuno una piccola scintilla che possa diventare domani una grande fiamma, a favore di certi valori imprescindibili e di un rispetto della diversità che vada oltre i pregiudizi o il semplice giudizio».

“Red card to child labour” è lo slogan contro il lavoro minorile del tuo viaggio. Hai incontrato molti bambini lavoratori?
«In tutto il continente, in maniera più marcata dal Messico in giù, il problema dello sfruttamento del lavoro minorile è uno dei più grandi, ed è spesso legato alla mancanza di educazione e alla scarsa informazione. Le aree rurali e quelle sfruttate sono quelle più colpite, però molte volte ci si accorge che non c’è cattiveria da parte delle famiglie, solo un'”abitudine” che viene da esperienze proprie e quindi riproposte ai figli. Per questo informare ed educare sull’importanza dello studio e del rispetto delle diverse tappe che l’uomo vive nella sua vita è fondamentale. Un bimbo deve fare il bimbo e quando inizia a lavorare deve essere con rispetto alla sua età e solo per responsabilizzarsi, non per subire abusi. Del resto, se si vuole vedere domani una società migliore e che trasmetta esperienze più dignitose, bisogna prestare attenzione alla voce dei più piccoli».

Dopo la tua esperienza come appare ai tuoi occhi Nicolosi e la nostra terra in generale?
«Anche di questo posso dire poco, perché non la vivo dall’interno, ma tramite gli occhi e le parole dei miei amici. Sicuramente lontana da me e da come vorrei vederla. L’Italia in generale la sento triste, abbandonata a se stessa e in caduta libera per molti aspetti, ma la vita politica, principale responsabile assieme alle influenze religiose ed educative, è lo specchio di quello che gli italiani vogliono. Quindi, sempre meno sto lì a pensare e ripensare. Quando rientrerò, porterò i miei sogni e magari, tramite quelli, potrò viverla meglio e poter avere il diritto di parlarne e provare a modificarla.
Il mio paesino, invece, lo troverò sicuramente diverso, un po’ vuoto per certi aspetti, per via di diversi amici che sono venuti a mancare in modo strano e improvviso, e nuovo, quindi da scoprire, per altri. Tutti ascolteranno la storia del mio viaggio e per loro diventerà monotona, io invece troverò ogni giorno una storia nuova, cioè il cammino durato tutta la mia assenza di ogni singolo individuo e ci saranno nuovi matrimoni, nuovi figli, nuove realtà. Ecco il famoso equilibrio che è sempre presente in tutto
».

Colette, una scrittrice francese, diceva: “Un sogno? E che me ne farei di un sogno solo?”. Tu ti definisci un sognatore, quali sono i tuoi sogni?
«Sono perfettamente d’accordo con Colette (che non conosco assolutamente). Non vedo perché uno debba fissarsi in una sola cosa nella vita e non aprire le porte alle infinite che aspettano di essere rincontrate. Ho tanti sogni e cammino perché qualcuno si realizzi e qualche altro rimanga tale».

Dove ti vedi tra 5 anni?
«Non ne ho idea, non so dove mi vedo domani. Immagino che starò camminando».


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