Quando mi trovo (di frequente, negli ultimi tempi) a dover indossare le vesti dell'”orientatore”, è ormai consuetudine il ricorso a una specie di “abbattimento”, già nelle prime parole, delle velleità occupazionali di chi chiede lumi su Scienze della comunicazione a Catania. I famigerati “sbocchi professionali” (è ora che si dica anche nei vademecum), dopo (o durante!) una triennale, non esistono. Sarebbe già un successo se riconoscessimo a livello istituzionale che il triennio a Scienze della comunicazione è un momento squisitamente formativo, di allestimento, di acquisizione, di tecnologia alla greca – di discorso sulle tékhnes. La “beffa” più grossa sta proprio in questo, oggi: lo studente che, una volta conseguita la sua laurea, pensa di respirare la carta stampata di un quotidiano, di avere un approccio in più – quello informatico – nel suo relazionarsi al mondo, di reggere i ritmi delle strategie di marketing pubblicitario, a conti fatti, si illude (sapendo di farlo).
Perché? Perché alla “gioventù” dei corsi non si contrappone la solidità di un progetto partecipato e continuativo circa tematiche pregnanti, come – una a caso – la presenza effettiva di docenti appartenenti a rami fondanti. E qui la parentesi è necessaria. Una facoltà, non assorbendo o integrando al proprio interno i (pochi) docenti ai quali si delega un’intera sfera di insegnamento, non si può aspettare altro che la loro dipartita, prima o poi. Specie se la forma di “coinvolgimento” non prevede alcun riferimento a possibili spiragli di ricerca (che, lo sappiamo tutti, nella sostanza significa bloccare la continuità e cassare ogni remota possibilità di allargare e far crescere un’ala didattica). Il primo sforzo deve essere l’investimento sulla ricerca e sui ricercatori, attraverso un (graduale, ok) innesto programmato che sia capace di riprodursi e rigenerarsi dall’interno, secondo me. Non mi dilungo negli esempi sullo stato delle cose, chiunque può rendersi conto della scarsa cura per questo tema. [Suggerimento: a SdC di Lettere, unici docenti dell’ambito comunicativo: Parito e Centorrino, quest’ultimo arrivato da poco. Da quest’anno, Centorrino va via.]
Non è solo una questione di soldi, di appeal, di avere o non avere il famoso manager didattico. La mia personalissima opinione è che nella gestione dei corsi di Scienze della comunicazione non esiste la (diffusa) mentalità dell’imprescindibilità qualitativa di certi ambiti. Che inevitalmente si riflette nei fatti, nelle pratiche. Non è PowerPoint, ma la rivoluzione dell’open source. Non è scrivere al pc un elaborato, ma foraggiare le redazioni in pianta stabile. Non è la relazione di gruppo per la prova in itinere, ma allestimento, produzione, pubblicazione, divulgazione.
Se il calderone in cui stiamo nuotando è “Comunicazione”, teoria, tecnica e applicazione sono sconnessi. Per questo penso che, se l’organico docente va potenziato e discusso secondo tempistiche non troppo contestualizzabili, forse la soluzione più a portata di mano è proprio nella struttura: dichiariamoci laboratorio. E inneschiamo queste benedette collaborazioni & contaminazioni interfacoltà, attraverso progetti solidi, che diano strumenti e strade alle dinamiche studentesche – spesso e volentieri molto più “brillanti” ed efficienti (vedi la.mu.s.a. e Medialab) di quanto ci si può aspettare perfino da chi si dichiara “di professione”. E’ a questo proposito che credo vada coraggiosamente “strappata” l’esclusività decisionale alle cariche “autorevoli”, e che il dibattito, così come la “stesura”, debba contemplare una forte componente “utente”.
Bisogna dare spazio ai fermenti, riconsiderare la splendida atmosfera del contesto universitario, restituire una dignità solida e riconosciuta a chi fa ricerca e “osa” innovare e, non ultimo, slacciarsi dai tentacoli incombenti del sub-appalto alle aziende e diventare risorsa autonoma, preziosa e produttiva.
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