Paparcuri, il superstite “dimenticato” dallo Stato  «Non è cambiato niente, cultura mafiosa ancora forte»

«Non è cambiato niente. Non sono bastati 32 anni». Giovanni Paparcuri è un sopravvissuto. Uno di quelli che la morte l’ha vista negli occhi. Ha resistito al tritolo di Cosa nostra, quando il 29 luglio del 1983 in via Pipitone Federico una Fiat 126 saltò in aria. Nella strage morirono il giudice Rocco Chinnici, gli uomini della sua scorta, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Lui no. «Sono un superstite, ma di fatto sono morto quel giorno – racconta a MeridioNews -. Per anni ho vissuto con un enorme rimorso di coscienza. Alle commemorazioni mi nascondevo agli occhi dei parenti delle vittime per la vergogna di essere sopravvissuto».

Il rapporto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nacque grazie alla sua passione per l’informatica. «Mi intendevo di computer, così il giudice Borsellino mi volle con sé nel 1985 per informatizzare il maxiprocesso – dice -. Sono rimasto chiuso nel piccolo bunker del pool insieme a loro. Erano due persone straordinarie, con caratteri diversi. Falcone era più introverso – racconta -, Paolo, invece, profondamente umano e ironico. Una volta mi rimproverò e mi disse: “La famiglia non va messa in secondo piano rispetto al lavoro”». Nel 2009 Paparcuri è andato in pensione con la qualifica di commesso. «L’amministrazione della Giustizia mi ha deluso – dice -. Lo Stato mi ha retrocesso. Mi sono sentito isolato e abbandonato. Non chiedevo medaglie o risarcimenti, ma una telefonata che non è mai arrivata. Neppure alle commemorazioni sono mai stato invitato. Eppure non ho mai avuto paura, nemmeno quando ho ricevuto minacce telefoniche».

È amareggiato l’uomo sopravvissuto all’ordine di morte della mafia. Di più. È «disgustato». Dalle notizie di cronaca, dagli scandali che travolgono istituzioni e imprenditori. Dal caso Helg e dalle presunte intercettazioni tra il governatore Crocetta e il suo medico personale e primario di Villa Sofia Matteo Tutino. Dall’antimafia che «litiga, che fa a gara per difendere questo o quel magistrato, senza capire che non siamo allo stadio». Dalle «passerelle mediatiche» con «i politici di turno che vengono, escono i loro fogli e leggono, citando Falcone e Borsellino, parole che non vengono dal cuore. E dopo averle lette, tornano alla loro vita di prima. La verità è che non interessa niente a nessuno». «Ho visto Lucia Borsellino il 23 maggio e il 23 giugno e l’ho trovata molto giù, con un sorriso triste che mi ha fatto piangere – dice commuovendosi ancora -. È la persona che sta soffrendo di più. Ma quelle parole (la presunta intercettazione tra Crocetta e Tutino, ndr), se vere, sono un’offesa alla società civile, a tutta la gente onesta».

Certo, ammette, oggi rispetto al passato «si parla più liberamente di Cosa nostra, ma la mentalità mafiosa resta forte, fortissima – ammette -. La battaglia non è vinta. Mi capita di andare nelle scuole e parlare ai ragazzi per dare loro speranza. Poi qualcuno in disparte mi chiama e mi dice : “Ma la mafia dà lavoro”. Rispondo che lo dà a magistrati e forze dell’ordine e dentro il mio cuore sento lo sconforto. Finché ci sarà il voto di scambio, la disoccupazione, la corruzione, certa politica, allora la battaglia contro Cosa nostra non potrà essere vinta». Eppure tornando indietro «rifarei tutto quello che ho fatto, non rinnego nulla e non mollo. Non abbandono la lotta». Per sconfiggere Cosa nostra, però, occorre recidere «quel legame con la politica e l’imprenditoria che la alimenta, fronteggiare la contiguità con il malaffare. È una sfida difficile, nel contrasto alla mafia non siamo perdenti, ma la strada è in salita» conclude. 


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