Dopo il messaggio del '93 in cui invita gli uomini di Cosa nostra a convertirsi, diventa un personaggio di riferimento per tutti quei boss intenzionati a cambiare vita. «Volevano ottenere uno sconto di pena consegnandosi spontaneamente, ma senza rivelare nomi e fatti». Un accordo, però, a cui la Procura dice di no
Padre Ribaudo, confidente dei pentiti dimenticato «Il mio appello colto dai mafiosi ma non dai giudici»
«Se un malvivente viene da te e ti dice “parliamo”, tu che fai?». Padre Giacomo Ribaudo non ha dubbi. Perché lui in questa situazione si è già trovato e, a distanza di molti anni, è certo che si comporterebbe proprio come fece nel 1993. Uno degli anni bui di Palermo, quello in cui Cosa nostra uccide il giornalista Beppe Alfano e padre Pino Puglisi, per non parlare della strage di via dei Georgofili a Firenze e di quella di via Palestro a Milano. Un anno, come i precedenti, di guerre, di sangue, di compromessi. Non tutti, però, hanno avuto compimento. Come quello che padre Ribaudo propone ai magistrati di Palermo, su mandato preciso di alcuni uomini che di Cosa nostra erano parte. «Sono stato incaricato da alcuni di loro, da alcuni capi. Sapevano che ero amico di Gian Carlo Caselli, mi chiesero di avvicinare i magistrati e vedere se, consegnandosi spontaneamente, potevano ottenere uno sconto di pena – racconta a MeridioNews padre Ribaudo – non intendevano fare nomi o parlare di collaboratori o altro, intendevano solo consegnarsi». Un desiderio, secondo lui, nato dal bisogno di dissociarsi, di prendere le distanza dal sistema criminale mafioso.
Da parte dei magistrati dell’epoca, però, nono c’è nessuna intenzione di cogliere questa opportunità. «La Procura non ha voluto trovare “questa” soluzione, che io invece condividevo. Io ho cercato di insistere con i magistrati, che si seguisse “anche” questa strada – spiega – Non dico che la repressione non abbia valore o che la giustizia non debba fare il suo corso, con le solite ricerche e tutti gli strumenti che le autorità hanno in loro possesso per cercare i malviventi. Quello si deve fare sempre. Ma se il malvivente ti cerca per trovare una soluzione? Mi metto a disposizione, mi faccio riconoscere dai latitanti, mi sembra eticamente corretto». Prima di rivolgersi alla magistratura palermitana, il parroco aveva cercato una via alternativa, lanciando un appello televisivo, in quello stesso anno, per chiedere ai mafiosi di convertirsi. «Diciamo che il messaggio è arrivato a destinazione, forte e chiaro – prosegue padre Ribaudo – È stato raccolto dai mafiosi, ma non è stato raccolto dalle istituzioni».
«Da allora sono stato tagliato fuori, non vengo più interprellato dai giornali, non sono più cercato dai familiari delle vittime, ho rotto con la famiglia Borsellino, con lo stesso Caselli e tantissime altre persone, compresi uomini di cultura e preti», racconta ancora padre Ribaudo. «Nella loro mentalità il vero pentimento si deve dimostrare accusando gli altri. Questo può essere giusto in Germania, in Svezia, in Giappone, ma ‘cca in Sicilia siamo. Non si può amministare la giustizia qui in Sicilia comportandosi come se ci si trovasse in una città come Sondrio o Berna. Io faccio il prete in Sicilia, intendo farlo da siciliano e coi siciliani». Di quel 1993, però, gli restano ormai solo i ricordi. La sua parrocchia non è più quella della Magione ma, da sei anni, la chiesa Maria Ss. Del Carmelo ai Decollati. A restare immutato è l’isolamento seguito alla sua attività, al suo esporsi con la Procura. Un isolamento che non arriva solo dalle istituzioni, ma anche e soprattutto da quelle persone che si erano rivolte a lui. «Si sono chiuse a riccio, non le ho più viste da allora. Con me hanno troncato tutti».
Persone per le quali, in un modo o nell’altro, era divenuto un punto di riferimento importante. «Che appartenessero a certi ambienti si capiva subito, è come quando un medico guarda un paziente in faccia e capisce se ha l’anemia o qualcos’altro. Qualcuno si rivolgeva a me col desiderio di cambiare la propria vita, altri invece venivano per misurarsi, cercavano in me collaborazione, compiacenza. Non c’era una tipologia unica». Nel ’93 lo cercano anche per confidargli l’intenzione di Bernardo Provenzano di dissociarsi. Ma nemmeno questo particolare, però, riesce a smuovere i magistrati palermitani, che archiviano il tentativo di cui si fa portavoce padre Ribaudo, condannandolo piuttosto all’oblio.