Orlando, Ferrandelli e il problema del simbolo Gli alleati si infiammano: «Questione di identità»

Gianfranco Miccichè ha deciso: è Fabrizio Ferrandelli il predestinato. È su di lui che si possono veicolare i voti delle anime moderate della destra e del centrodestra a Palermo per le prossime Comunali. Anzi no. No, perché dove neanche le indagini della Procura fanno vacillare le considerazioni sulla bontà dell’alleanza, a riuscirci sono le parole dello stesso Ferrandelli, che in conferenza stampa rispolvera lo slogan di inizio campagna elettorale e dichiara: «La nostra piattaforma è aperta a tutti i soggetti che vorranno sottoscrivere il mio programma. Sono il candidato di tutti, altrimenti avrei corso con un partito. Se esponenti di altre aree politiche decidono di sostenere un candidato io non ci vedo niente di male. Ma niente bandiere, non avremo né padrini né padroni». E in fondo c’era da aspettarselo che un candidato che pure ha peregrinato per buona parte delle insegne politiche del centrosinistra e della sinistra: dal Pd all’Italia dei valori, non faccia i salti di gioia per appuntarsi sul petto la spilletta di Forza Italia e, pur non disdegnando l’aiuto di Micciché e dei suoi, tenda a smorzare i toni. In fondo sono loro, come sottolineato dall’ex deputato regionale, a «volere sottoscrivere il programma», mica il contrario. 

Il primo a rimanere turbato, però, è lo stesso luogotenente di Berlusconi sull’Isola che, riparandosi dal solito «ce lo chiede la base del partito» tuona: «Sta emergendo, chiaro e netto, un messaggio: dall’identità non si prescinde, il simbolo non si discute. Noi siamo Forza Italia e lo rivendichiamo con orgoglio». Ricalcando praticamente lo stesso refrain suonato qualche settimana prima dalle sirene del Pd che a un Davide Faraone in versione pragmatica («Non importa il simbolo, purché portiamo a casa la vittoria al primo turno») hanno risposto con un chiaro «Va bene andare con Orlando, ma noi siamo orgogliosi di essere il Partito democratico, il simbolo non si tocca». Anche in quest’ultimo caso, però, non è stato il sindaco uscente a chiedere l’appoggio dei democratici, anzi, Orlando non si è ancora nemmeno espresso sulla possibilità o meno di accettare di correre assieme ai principali avversari di cinque anni fa. Lo farà il 29, quando darà il via alla sua di macchina elettorale. Ma nel rapporto a distanza tra Ferrandelli e Micciché a irrompere è Saverio Romano, ex ministro ed esponente di Ala, che si autoinveste del ruolo di paciere e promette di portare mediazione tra i due. «Al netto della retorica del sindaco di tutti – dice – Ferrandelli ha trovato il giusto equilibrio tra la necessità di non avere maglietta e il coinvolgimento delle forze politiche, attraverso un appello di buon governo sul quale chiede adesione». Un appello a cui Romano pare non essere rimasto indifferente, tanto che «poiché ho rispetto per il travaglio interno a Forza Italia, che non vorrebbe rinunciare al suo simbolo, alleato strategico a Palermo come in Sicilia della mia comunità politica, sento il dovere di lavorare ancora per avvicinare ulteriormente distanze non incolmabili».

E dall’altra parte della barricata le cose non sono più semplici. C’è un’apertura forte, quella appunto di Faraone, nei confronti di Leoluca Orlando. C’è un’indicazione ancora più forte, quella della direzione nazionale del Partito democratico: Orlando va incontrato al più presto perché il primo partito d’Italia non può perdere (anche) la quinta città d’Italia. Ma pure qui, persino da chi sosteneva l’intesa con il primo cittadino quando veniva considerato eresia, la rinuncia al simbolo – solo paventata visto che il diretto interessato, Orlando, non ha mai aperto bocca in merito alla questione – è stata vista come un oltraggio alla bandiera. In realtà il tema è più serio di quanto non si possa pensare. Ci sono le due principali aree politiche: centrosinistra e centrodestra, che in cinque anni non solo non hanno saputo formare un leader da porre alla guida dell’armata con cui puntare dritti verso palazzo delle Aquile. E, salvo sconvolgimenti dell’ultim’ora, neanche tirarsi fuori dal cilindro una candidatura – o una serie di candidature -, un nome spendibile su cui fare confluire le anime politicamente affini, tanto da essere costretti, a pochi mesi dalle elezioni, ad andare a bussare alla porta di due campioni del consenso fatti e finiti, con un loro programma già in tasca e il loro – nutrito – giro di sostenitori. E pretendere anche di volere piantare bandiera. 


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