Produrre un tessuto spalmato dagli scarti delle arance e delle pale di fichi d’India. È questo il lavoro di Ohoskin, una startup siciliana fondata nel 2019. «Abbiamo ottenuto il brevetto a novembre di quell’anno – dice a MeridioNews Adriana Santanocito, co-fondatrice dell’azienda – ma a causa del Covid l’attività è partita davvero nel 2021». Santanocito […]
Foto della pagina Facebook Ohoskin
Il tessuto vegano che dà «una seconda vita agli scarti delle arance e delle pale di fichi d’India»
Produrre un tessuto spalmato dagli scarti delle arance e delle pale di fichi d’India. È questo il lavoro di Ohoskin, una startup siciliana fondata nel 2019. «Abbiamo ottenuto il brevetto a novembre di quell’anno – dice a MeridioNews Adriana Santanocito, co-fondatrice dell’azienda – ma a causa del Covid l’attività è partita davvero nel 2021». Santanocito – già fondatrice di Orange Fiber – racconta come Ohoskin produca un tessuto spalmato «vegano e sostenibile in molti modi, perché utilizziamo gli scarti vegetali al di fuori della catena alimentare». Nel 2021 la startup ha vinto il Motor Valley Accelerator, uno dei 18 acceleratori di Cassa depositi e prestiti. Gli acceleratori sono pensati per investire «nella fase iniziale di una startup, quindi per noi è stato molto importante», dice Santanocito. Com’è comprensibile, i focus del Motor Valley Accelerator sono mobilità e automotive. Oltre a puntare il mondo della moda, infatti, Ohoskin è entrato presto anche in quello dei rivestimenti per automobili e del design d’interni per le abitazioni.
«Con la moda siamo stati più avvantaggiati – dice Santanocito – perché è un mondo più pronto su temi come sostenibilità e tessuti alternativi. Da tanti anni si parla dell’impatto degli indumenti realizzati con materiale di origine animale, con la pelle». Affacciandosi a un settore «esigente» come quello dell’automotive, «abbiamo aperto un nuovo mercato e da un anno e mezzo lavoriamo con alcune case automobilistiche per ottimizzare il prodotto per le auto». Per quanto riguarda l’automotive i tessuti di Ohoskin sono stati validati su scala di laboratorio, il prossimo passo è quello della scala industriale. «Sono 70 i test che si devono superare per far entrare il materiale nelle automobili di serie», dice la co-fondatrice della startup. Tessuti per gli interni delle auto, elementi di arredamento per la casa, ma anche materiale per scarpe, borse e accessori. I materiali di scarto delle arance e delle pale di fichi d’India vengono lavorati in Sicilia, mentre un’azienda lombarda si occupa della realizzazione del prodotto finale.
«La lavorazione – dice Santanocito – prevede che il sottoprodotto delle arance e delle pale di fico d’India – che diventa un biopolimero – venga spalmato in una base di tessuto, entra dentro dei forni e dopo viene data l’incisione: il retro è in cotone e poliestere riciclato, mentre sopra viene fatta l’incisione, cioè le varie texture. Il concetto importante – continua Santanocito – è che tutto viene da fonte riciclata o da ricicli o da recupero». Alcuni tessuti vengono realizzati solo con i sottoprodotti delle arance, altri solo con quelli delle pale di fichi d’India, altri ancora con entrambi i materiali. «Non sapevo se l’idea poteva funzionare, ho voluto tentare», dice la co-fondatrice di Ohoskin. «In Sicilia l’arancia ha un’importanza legata alla tradizione, ma anche le pale di fichi d’India hanno una filiera di produzione molto importante – dice Santanocito – Dalle pale si può ricavare una farina alimentare e un gel cosmetico, quello che resta sono scarti che mischiamo insieme alle arance per realizzare i nostri tessuti». Ma di recente l’interesse di Ohoskin si è posato anche su un altro frutto: «Abbiamo testato il limone, che ha una pigmentazione diversa».
L’azienda è riuscita a calcolare l’impatto in CO2, cioè l’anidride carbonica, della sua produzione. «È di circa 2,57 chili per metro quadro», mentre per lavorare tessuti fatti con la pelle animale sono necessari gli allevamenti intensivi, il cui impatto in termini di anidride carbonica «è di circa 110 chili per metro quadro. Per non parlare delle pelli esotiche, che sono considerate di lusso», dice Santanocito. L’azienda non produce un prodotto plastic free e dietro questa scelta ci sono motivi molto precisi. «Il nostro è un polimero di plastica riciclata, non è poliuretano, che è il materiale che si usa per la similpelle. Il poliuretano è soggetto a idrolisi, quindi dopo un certo periodo di tempo si usura e si deve buttare. Invece la nostra formula non è soggetta a idrolisi, quindi il materiale è resistente all’abrasione, al calore, all’esposizione alla luce e all’umidità. Ed è durevole, dai 10 ai 20 anni». Secondo Santanocito «è proprio per la durevolezza e per la resistenza del prodotto che i brand di lusso dell’automotive stanno testando Ohoskin. Dopo aver speso una certa cifra per avere un’alternativa valida, vuoi che quel prodotto sia resistente».
Il materiale realizzato dalla startup non è totalmente biodegradabile, ed è una scelta anche questa. «Serve per allungare la vita degli oggetti, così da evitare di doverli buttare e di doverne comprare altri. Il nostro non è un prodotto biodegradabile, ma riciclabile, che è diverso – dice Santanocito – Abbiamo trasformato la plastica – che è una delle invenzioni più importanti dell’essere umano – in un alleato e non in un nemico. Con Ohoskin abbiamo allungato la vita di alcuni materiali, abbattuto la produzione di CO2 e usato frutti tipici della nostra terra». Il nome stesso della startup ha a che fare con i prodotti usati, con la sostenibilità e con una «scelta di vita diversa rispetto all’uso della pelle animale».
Quando Adriana Santanocito ha cercato il nome per l’azienda – fondata insieme all’imprenditore e chimico Roberto Merighi – ha pensato «a tutte le matrici che componevano il prodotto. Ho scritto i nomi delle matrici in varie lingue e mi sono accorta che ricorrevano le due ‘o‘: quella di orange e quella di opuntia, il nome scientifico della pala di fico d’India. L’acca invece può essere una nuova matrice che si inserisce all’interno dello sviluppo – dice Santanocito – e simboleggia l’apertura verso nuove soluzioni». Poi skin, cioè pelle, intesa come pelle umana, «perché la pelle degli essere umani protegge gli organi vitali e la vita stessa». Questo progetto «è una seconda vita sia per me sia per i sottoprodotti dei frutti che usiamo – conclude Adriana Santanocito – Ma è anche un modo per proteggere la vita delle persone, dell’ambiente e degli animali».