Non di sole arancine vive l’uomo (palermitano) Una catanese tra sparacelli, accia e carciofa

Quando mi trasferii a Palermo, una delle prime cose che feci fu quella di fornire il frigorifero del necessario per una decorosa sopravvivenza. Ripasso il mio breve vocabolario catanese/palermitano e mi dichiaro pronta: non arancino ma arancina. Avevo adocchiato il negozio di un fruttivendolo, un vero trionfo di frutta e verdura, proprio vicino casa e decido di fiondarmi lì. Vedo una montagna di verdi cavolfiori, un tripudio di clorofilla e vitamine. Chiedo sorridendo al fruttivendolo: «Un cavolfiore!». Quello mi guarda, con aria sospettosa. E tace.

Oddio. Che succede? Che si sia accorto della mia origine catanese e, sopraffatto dal campanilismo calcistico, abbia deciso di privarmi del mio cavolfiore? Decido di non demordere. Non può averla vinta, è una questione d’onore. «Scusi, io desidero un cavolfiore». Stavolta mi guarda un po’ spazientito. «Signorina – mi dice con una marcatissima inflessione palermitana – qui cavolfiori non ce ne sono. Provi dal fioraio che forse li ha». «E questi che sono?», faccio io indicando la montagna di cavolfiori. «Questi? – risponde il fruttivendolo con una faccia che mostra subito commiserazione per la mia ignoranza – questi sono broccoli». 

Broccoli? «E quelli che cosa sono?». E indico una cassetta piena di quelli che fino a quel momento della mia vita ritenevo si chiamassero broccoli. «Signorina, ma quelli sparacelli sono!», mi risponde spazientito ma con una mezza risatina. «E quelli?». E indico il fagiolino. «Quella fagiolina si chiama». «E quello?», proseguo indicando il sedano. «Quella è ac-ci-a», scandisce il mio maestro pensando che fossi scema o straniera.

Mi sento confusa: non solo i vegetali vengono qui apostrofati con nomi inconsueti, diversi e distanti da quelli di mia conoscenza, ma la maggior parte di loro vengono ascritti al genere femminile. Ma che cos’è tutto questo ginecentrismo? Non voglio arrendermi e continuo: «Non mi dica che questa è una carciofa?», chiedo con un sorriso malizioso. «Signorina, certo che è una carciofa. Qui da noi si chiama anche cacocciola», mi risponde ormai con aria distratta servendo un altro cliente.

Mi manca il fiato. A Palermo non è solo l’arancina ad essere femmina!

«E lei, una zuppa con la carciofa e la fagiolina con quale posata la mangia?», chiedo prevedendo già la risposta. «Con la cucchiara! Ma signorina, vuole farmi perdere tempo oggi? Vuole o non vuole questa fagiolina? Perché non prende anche la rafanella? Guardi quanto è fresca».

Rimango in silenzio. «Signorina, sta bene? A me sembra un po’ confusa stamattina. Le posso dare la santina di Sant’Onofrio che la protegge? Signorina, risponda…..». 


Marilena La Rosa, catanese emigrata a Palermo per amore


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«Avevo adocchiato il negozio di un fruttivendolo. Vedo una montagna di verdi cavolfiori, un tripudio di clorofilla e vitamine. Chiedo sorridendo: "Un cavolfiore!". Quello mi guarda, con aria sospettosa. E tace». Per un'emigrata per amore è solo l'inizio di una lezione a metà strada tra cucina e linguistica

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