«Mi hanno chiesto di lui, e ho dovuto mettere a fuoco, in pochi istanti, questa grande figura del nostro giornalismo». Una riflessione sul fondatore e direttore dei Siciliani, che fu anche prolifico autore teatrale e scrittore, non è mai facile. Nemmeno per Sergio Salamone, scrittore e autore del blog Del mio mejo. La sua riflessione parte dall'ultima intervista, rilasciata pochi giorni prima di essere ucciso dalla mafia trent'anni fa. E dalle sue parole, molto citate e famose, sul suo rapporto con la città adottiva, Catania. Con il sospetto che «Fava non sia stato capito per nulla»
Non capire una fava di Pippo Fava Una riflessione sul grande giornalista
Cari vertebrati, giorni fa una mia cara amica, come è suo peculiare costume, mi ha chiesto a bruciapelo cosa ne pensassi di Giuseppe Fava. Ed io ho dovuto mettere a fuoco, in pochi istanti, questa grande figura del nostro giornalismo.
La prima immagine? L’ultima intervista che Biagi ji fece; a pochi giorni dal suo brutale assassinio. Fava indossava un giubbotto di pelle e parlava con estrema sicurezza; non si percepiva un cedimento nella voce, nemmeno per un secondo, un sentore di quell’emozione torbida e buia che noi tutti chiamiamo paura. Il giornalista di Palazzolo Acreide sembrava una reincarnazione di Fonzie (sì proprio lui, quello del mitico Happy Days!) con due sole sostanziali differenze.
In ordine di importanza: Fava parlava della mafia, e tirava in ballo i potentissimi: governanti e banchieri. Lo faceva con una pacatezza encomiabile e con un velo di enigmatica ironia. Come a dire: davvero credete di essere i padroni del mondo? Morirò io, ma morirete anche voi; probabilmente cento volte di più. Non si trattava, dunque, di un telefilm in cui ragazzi e ragazze di una certa America vanno nei drive-in per scambiarsi effusioni, e ballano rock and roll con sfrenatezza.
Fava raccontava di un’organizzazione criminale, anzi dell’organizzazione criminale per eccellenza, e della sua mutazione: Cosa Nostra, ormai, si occupava dei traffici internazionali di droga, e poteva avvalersi di protezioni più che altolocate. Biagi era quasi sbigottito dalla tracimante personalità del suo interlocutore.
Quel giubbotto di pelle nera, forse, serviva a protezione del buio che sarebbe venuto da lì a poche ore. Un’altra differenza dal Fonzie originale la faceva la barba. Era una barba omerica; da viaggiatore del mondo, da santo bevitore. Nulla a che vedere con il faccino da eterno fanciullo di Henry Winkler. Il viso di Fava era il viso di chi aveva perso l’innocenza, riconquistandola dopo aver guardato con coraggio l’abominio.
Accanto a lui sedeva Nando Dalla Chiesa, in clamorosa versione Ned Flanders. Ero di fronte a chi mi aveva rivolto una domanda e tutto quello che mi tornava alla mente era una trasmissione televisiva! Ben poca cosa rispetto alla grande mole di scritti che Fava ci ha lasciato.
Il giornalista scriveva da sempre articoli col sangue. Come Cyrano. Dapprima con quello dei morti ammazzati, poi, poco a poco, quasi senza accorgersene, con il suo. Le sue pagine, se rilette, paiono gridare ancora oggi; non si piegano di fronte alla menzogna; fanno nomi e cognomi. E tra le sue tante vibranti parole è sua una delle dichiarazioni più belle che siano mai state fatte a Catania:
Io amo questa città con un rapporto sentimentale preciso. Quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana e non può farci niente. Sa che è puttana, è volgare, è sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, prepotente, e però è anche allegra, ridente, violenta, conosce tutti i vizi e i trucchi dell’amore, e li fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; eji dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso, “Al diavolo zoccola!”, ma il solo pensiero di abbandonarla ji riempie l’animo di oscurità.
E che Catania sia stata traditrice con Fava è fuor di dubbio. Si racconta che al suo funerale fossero presenti ben poche persone; e che fino alla fine si cercò di non attribuire la responsabilità dell’omicidio a Nitto Santapaola. Eppure, quando sono tornato nel capoluogo etneo, ho provato la stessa malia, lo stesso straniamento, la stessa, identica, lancinante nostalgia dell’amante. E quasi nello stesso tempo, altri amici, hanno avuto la mia stessa sensazione.
Dopo dieci anni di distacco mi è tornato in mente tutto, le mie case: via Crociferi, via Diana, via Santa Maria di Betlemme, via Teocrito, i miei compagni d’avventura, quella strada magica che ha per nome via Etnea, e che pare portarti fin dentro al vulcano. E quando vedo tutta questa bellezza macerarsi nell’indifferenza, mi appijo al pensiero di quelle persone che combattono, che hanno combattuto, che continueranno a combattere per un’idea diversa di società.
Nonostante abbia, a volte, il sospetto che Fava non sia stato capito per nulla, sento che qualcosa è rimasto. Forte come pietra lavica. Fava non è morto che una volta sola. Altri moriranno eternamente: rivoltandosi nell’ignavia.
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