Sono 125 le vittime di violenza che nel 2017 sono riuscite a farsi una nuova vita grazie all'aiuto della cooperativa Proxima: 81 donne e 44 uomini, compresi 51 minori. «Un giorno il padrone mi offrì un caffè in casa sua. Io andai, pensando che la moglie ci fosse. Ma lei non c’era, lui mi spinse nella camera da letto», racconta Adelina
Nelle campagne siciliane tra abusi e sfruttamento «Violentata dal padrone, mio marito era d’accordo»
«Mi chiamo Adelina, ho 30 anni, sono venuta in Italia per lavorare, raggiungendo il mio ex marito che lavorava in provincia di Ragusa come bracciante nelle serre. Vivevamo in una casa dentro le serre senza contratto, e lui un giorno mi chiese di essere carina con il padrone che, in cambio, sarebbe stato generoso con noi. Io mi rifiutai, e mio marito mi picchiò per convincermi». Comincia così una delle tante storie che le operatrici e gli operatori della cooperativa Proxima di Ragusa ascoltano quasi quotidianamente. Storie di sfruttamento sessuale e lavorativo, di singoli individui ed interi nuclei familiari giunti in Italia al termine di un viaggio lungo e pericoloso, in cerca di una terra promessa che non sempre si rivela tale.
Quando si parla di tratta di esseri umani, la mente sembra fare un salto indietro di secoli. E invece succede ancora, in Sicilia, nel 2017. Sono state 125 le vittime aiutate ad uscire dall’incubo grazie al progetto Fari, che Proxima ha portato avanti per 15 mesi, dal 1 settembre dello scorso anno fino al 30 novembre 2017, nelle province di Ragusa, Siracusa, Enna e Caltanissetta. Un lavoro importante, che dal 1 dicembre è ripartito per altri 15 mesi con Fari 2.0 che permetterà di intervenire anche sul territorio di Agrigento, grazie a circa 35 collaboratori interni ed esterni, tra cui cinque assistenti sociali, cinque psicologi, sette mediatori, due educatori, due agronomi, due legali e tecnici vari. La responsabile del progetto è Ausilia Cosentini che spiega, senza girarci troppo intorno, che «stiamo parlando di una schiavitù moderna, spesso invisibile, alla quale sono costretti uomini, donne e bambini».
Donne, per l’appunto, come Adelina, di nazionalità rumena, che continua così il suo racconto: «Un giorno il padrone mi chiamò al cellulare per offrirmi un caffè in casa sua. Io andai, pensando che la moglie ci fosse. Ma lei non c’era, lui mi spinse forzatamente nella camera da letto e abusò di me. Mi sentii immobilizzata, senza forze, incapace di reagire. È stata la più brutta esperienza della mia vita. Decisi quindi di fuggire, di ritornare in Romania, e dopo qualche mese mi separai anche da mio marito, diventato sempre più violento». Passa del tempo e Adelina ritrova la serenità accanto ad un altro uomo. In Romania, però, la situazione economica è difficile e da lì la decisione di tornare di nuovo in Sicilia per lavorare nelle serre. «Siamo andati a lavorare per 25 euro al giorno, per 10 ore lavorative giornaliere senza contratto – prosegue – e non mi pesava finché non rimasi incinta. Lavorai fino all’ottavo mese di gravidanza, ma poi dovetti interrompere e tornare in Romania. Con i soldi che lui ci mandava, però, non riuscivamo ad andare avanti, così sono stata costretta a lasciare il mio bambino alle cure di una parente che mi chiese 250 euro al mese per tenerlo. Raggiunsi il mio compagno e ogni mese mandavamo i soldi per il mantenimento di nostro figlio, che intanto cresceva senza di noi. Dopo due anni rimasi incinta per la seconda volta, e il padrone ci disse chiaramente che dovevo interrompere la gravidanza se volevamo rimanere a lavorare per lui. Venivamo controllati costantemente e non ci dava i soldi pattuiti, solo degli acconti. Così abbiamo nuovamente cambiato campagna tramite un intermediario che abbiamo pagato 100 euro, nascondendo la gravidanza, ma anche con il nuovo padrone le cose non sono andate meglio».
Adelina parla solo di «padroni», mai di datori di lavoro, ma è a questo punto che lei e il suo compagno conoscono la cooperativa Proxima, e la loro vita cambia. La gravidanza può continuare e si trova anche il modo di far ricongiungere il primogenito alla famiglia. «Dopo qualche mese ho partorito – conclude Adelina, che guarda al mondo adesso con più speranza – e il mio compagno ha iniziato un percorso di tirocinio che ci aiuterà a costruire il nostro futuro».
Sandra, invece, è la seconda di quattro fratelli, è nigeriana e la madre è rimasta invalida dopo un incidente. A seguito di ciò, il padre l’ha abbandonata e si è risposato. «Ho deciso di partire per aiutare mia madre e i miei fratelli – racconta – ed è stato un amico di mio zio a parlarmi della possibilità di andare in Italia, dove una donna di nome Ide cercava qualcuno per aiutarla a lavorare in un supermarket. Mi hanno portata a fare il rito woodoo presso un native doctor, con mio zio quale garante per il debito». Il rito in questione consiste nel mangiare il cuore e le interiora di una gallina sacrificata al momento, ingerendo anche una bevanda alcolica e promettendo la restituzione di 25mila euro alla donna in Italia: se il patto non verrà rispettato Sandra e lo zio moriranno.
«Dopo due giorni sono partita – continua Sandra – affrontando un viaggio di due mesi e mezzo. Ho attraversato il deserto per tre giorni senza acqua, fino a Tripoli, dove sono stata portata in un ghetto dove non c’erano né cibo, né acqua, né servizi igienici. Lì, come tante altre donne, sono stata abusata. Pensavo che la partenza per l’Italia, dopo un mese, sarebbe stata la mia liberazione da quell’orrore. Invece, arrivata in Sicilia, sono stata trasferita in un centro d’accoglienza di Napoli. Qui Ide ha mandato un nigeriano a prendermi per raggiungere Firenze e una casa dove vivevano cinque donne. A quel punto, Ide mi ha svelato il vero lavoro per cui mi ero impegnata a restituire il debito: la prostituzione».
Sandra si rifiuta, urla e per questo viene segregata in casa senza alcuna possibilità di contatto con altre persone. Alla fine cede, anche perché teme che il rito possa avere gravi ripercussioni sulla sua famiglia. Finisce sulla strada per sei mesi e rimane incinta, viene costretta ad abortire e un’emorragia quasi la uccide. «Ero distrutta – dice – mi sentivo un corpo senz’anima, ma ho avuto la forza di reagire e di scappare. Sono riuscita a contattare un amico, che mi ha suggerito di chiamare il numero verde». A quel numero verde risponde Proxima, e adesso Sandra sta lentamente tornando alla vita.
Il progetto Fari ha finora salvato, e sta aiutando a integrarsi nel tessuto sociale, 81 donne e 44 uomini: 67 sono di nazionalità nigeriana, 36 della Romania, otto del Marocco, due della Colombia, uno della Costa d’Avorio, tre del Gambia, tre del Ghana, uno del Mali, uno del Senegal, uno della Tunisia, due dell’Ucraina. 74 sono gli adulti, 51 i minori e di questi 27 sono non accompagnati. Per quanto riguarda la tipologia di intervento, 78 hanno avuto a che fare con lo sfruttamento sessuale, 18 con lo sfruttamento lavorativo, tre con entrambe le tipologie e due con attività illegali. Con Fari 2.0 sono state previste alcune novità, tra cui l’unità di strada, mentre rimarrà operativo il solidal transfer, che permette di fare emergere le vittime di tratta nei territori più a rischio.