Nel cuore, quale “bestia”?

Come si fa a raccontare un incesto; l’omosessualità di una donna cieca; l’omosessualità di una donna matura abbandonata dal marito per la giovane amica della figlia; il tradimento da parte di un uomo della fidanzata che, a sua insaputa, è incinta; un parto in treno; un uomo in analisi; una madre accondiscendente alle perversioni del marito: come si fa a raccontare tutto questo in una sola storia?

Si può, forse, ma a patto di essere dei bravi orchestranti, altrimenti gli oggetti scappano di mano , come a quel famoso tizio che troppo vuole… Ma quel che più conta : bisogna fare in modo che tutto ciò non risulti indigesto al pubblico italiano. (O meglio, al pubblico italiano che assiste ad un film italiano: agli stranieri, per fortuna, concediamo un respiro più ampio.)

Impresa non facile, dunque, quella in cui si cimenta Cristina Comencini, col film presentato alla mostra di Venezia: palesare il lato oscuro dell’essere umano, trovare nel cuore di un uomo, la “bestia”. Già, ma la “bestia” è un ricettacolo di detriti scuri che riposano al fondo e ogni tanto, con uno scossone, si rimescolano alla nostra anima distillata… o la “bestia” ( sarà poi adatto questo appellativo? Forse non lo sarebbe neanche quello di “bruto”, se si considera che la perversione non per forza è inversamente proporzionale all’evoluzione ) è piuttosto onnipresente, senza obsolete divisioni nella singolarità dell’individuo, che non è di giorno buono e di notte cattivo, ma indistintamente l’uno e l’altro?

C’è la depravazione nel film della Comencini: è descritta, è raccontata, ma il torbido proprio non si trova. E’ forse una personalità disturbata quella della protagonista, interpretata dalla rassicurante Giovanna Mezzogiorno? Forse vorrebbe esserlo, ma si fugge in ogni modo la pregnanza, sacrificandola al perbenismo. Tutto è molto “per bene”: si censurano il degrado e lo squallore, quasi non facessero parte della vita della gente, rendendo il film simile a quel quadro da cui per forza si debba intravedere il piatto della tela bianca: come a dover tranquillizzare il pubblico, ché la rappresentazione si esaurisce nei limiti di un’ area candida, che non si squarcia in nessun punto e che mai è vita vera.

Ecco allora che la tragedia si esprime col pianto, con le contrazioni facciali, con tic che nemmeno lontanamente sembrano inconsulti, e con i sogni…secondo Manuale. Dunque si sceglie la bella e molto italiana Giovanna Mezzogiorno e le si affianca Luigi Lo Cascio, che ha sempre uno sguardo sufficientemente profondo per le situazioni estreme: interpreta Daniele, il fratello della protagonista, che è andato fino in America per insegnare. Qui, tra Leopardi e i lirici greci, si impegna a superare i traumi infantili in una bella villa, con tanto di giardino, cane e bambini.

E’ qui che i due fratelli rimescolano ricordi a dir poco dolorosi, e si fanno confessioni grosse come macigni. Sarà dettata dalla ricerca di un effetto di contrasto, la scelta di ambientare l’apice della vergogna e della tragedia in una candida casa americana? Non sarebbe stato lo stesso, se la scena si fosse consumata in una casa normale, magari su un letto ancora disfatto, su un tavolo della cucina non ancora sparecchiato, nel grigiore di Milano. E non in un altrove così lontano come l’America, che invece ha lo scopo di esiliare i ricordi del passato oltre che in un’altra dimensione temporale, in una diversa collocazione spaziale. Ricordi che vivono lontano da casa nostra, eppure ci appartengono, e ogni tanto vengono trovarci come ospiti scomodi. Possibile?

C’è una sincera volontà di analisi psicologica nella sceneggiatura, c’è lo”scavo”, ci sono dei rimandi ammiccanti di battute: si capisce ogni cosa, tutto è spiegato, forse è questo il problema, non solo di questo film, ma di molte tra le recenti pellicole italiane. Si parla troppo, ci si abbraccia troppo, si colmano così i vuoti e i silenzi tra le persone, che tanto potrebbero dire se la corda stilistica fosse abbastanza tesa.

Angela Finocchiaro ha l’ingrato compito di far prendere aria al film, a lei tutto il peso della leggerezza che mancava. E in effetti riesce, con spontaneità , ad esprimere un’ironia che, ogni tanto, conosce la dimensione dell’amarezza. La sua compagna nel film è Stefania Rocca, la cui bellezza diafana salva esteticamente più di una scena, insieme ad un’ interpretazione che riesce ad essere intensa: lei è la donna che aspetta, addirittura al telaio, persa in una cecità che la rende ipersensibile e fragile ma lo stesso fiera. Se un premio doveva proprio esserci per questo film, che andasse almeno a lei.

 


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