Nebrodi, veterinari complici della macellazione clandestina Allevatore: «Hanno fermato camion coi vitelli, chiama a lui»

Sono otto i veterinari dell’Asp di Sant’Agata di Militello finiti al centro dell’operazione Gamma interferon della polizia coordinata dalla procura di Patti, che ha fatto luce su due associazioni a delinquere che gestivano un giro di macellazione clandestina. Dal furto degli animali alle cure con farmaci illegali, e quindi la macellazione e la messa in vendita, è stato scoperto un sistema ben collaudato che andava avanti da anni mettendo a rischio la salute dei cittadini

Durante l’indagine, cominciata a novembre 2014 e andata avanti fino alla fine del 2015, come si legge nell’ordinanza siglata dal gip Andrea La Spada, «venivano registrate numerose conversazioni tra gli allevatori e i veterinari in servizio presso l’Asp – ovvero coloro che avrebbero dovuto assumere il ruolo di controllori -, da cui emerge l’esistenza di un sistema di complicità con le aziende “amiche”, tale per cui queste ultime potevano, oltre che godere di un trattamento favorevole al momento dei controlli, avere un appoggio concreto durante lo svolgimento di attività illecite». E il giudice fa l’esempio della compilazione dei moduli per il trasporto di animali nonostante la presenza di esemplari «non identificati». Dalle intercettazioni in mano agli inquirenti si ricostruisce «il rapporto di collusione esistente tra i quattro veterinari e Nicolino Gioitta e gli altri affiliati allo stesso. Si tratta, in particolare, di Antonino Ravì Pinto, come detto responsabile della struttura e dirigente medico veterinario, di Fortunata Grasso e di Sebastiano Calanni Runzo, veterinari ambulatoriali – si legge nel documento – facenti capo al primo e di Antonio Calanni, veterinario ambulatoriale che spesso effettuava i controlli di profilassi negli allevamenti con i predetti». 

Gli investigatori sono riusciti a documentare non solo i contatti con Giotta, ma soprattutto incontri organizzati per «predisporre carte e documenti falsi per “regolarizzare”, sul mero piano formale, lo status di alcuni animali il cui possesso era frutto di attività illecita, di modo da mettere in commercio la carne ricavata dalla macellazione quale apparentemente proveniente da un allevamento accreditato». Ed è proprio grazie alle attestazioni dei veterinari che la carne «pericolosa per la salute dei consumatori, perché priva di controlli sanitari o addirittura infetta» arrivava nelle macellerie. Era grazie a loro che appariva «come certificata ovvero garantire la qualifica di “ufficialmente indenne” agli allevamenti; qualifica che comportava per gli allevatori la possibilità di accedere a contributi pubblici (tutte le aziende analizzate, negli anni, avevano percepito finanziamenti dall’Agea) e altri benefici (es. la possibilità di movimentare gli animali ecc.)». L’azienda Gioitta, tra il 2014 e l’inizio del 2016, ha ricevuto fondi europei per 15.830 euro.

A garanzia del consumatore finale va sottolineato che in caso di brucellosi bovina, l’uomo può contrarre la malattia direttamente attraverso il contatto con animali infetti, immediatamente dopo il parto o l’aborto e, indirettamente, attraverso il consumo di latte non pastorizzato e dei suoi derivati. Il consumo di carne, anche se derivata da animali infetti, non rappresenta una via di trasmissione importante. Nel caso invece della tubercolosi bovina, il contagio può avvenire sia per via aerea sia attraverso il consumo di latte crudo e di prodotti a base di latte non pastorizzati. Anche in questo caso, la cottura della carne evita la trasmissione.

Il modus operandi del gruppo che fa capo a Giotta emerge in particolar modo in un’intercettazione successiva a un sequestro di bestiame quando «non curante della presenza degli agenti – si legge nelle carte – contattava il veterinario Sebastiano Calanni Runzo, affinché questi si attivasse con il responsabile locale dei veterinari di Sant’Agata di Militello, Ravì, affinché questi intercedesse con Lo Bianco per mettere a posto le cose». E i contenuti della conversazione, in tal senso, sembrano inequivocabili. «“…senti qua una cosa… è successa una minchiata… ho quattro vitelli qui sul camion… lo hanno fermato.. ora qua c’è Lo Bianco… non glielo puoi fare uno squillo qua… magari chiami a Ravì… così lui sa come sono combinati”», pronunciano gli indagati.

Successivamente, Gioitta e Calanni Runzo si mettevano d’accordo per fissare un incontro mattutino per mettere in regola gli animali, «ovvero identificarli con marchi auricolari, boli elettronici e tatuaggi, in modo che la polizia, a un successivo controllo, trovasse tutto in regola (gli agenti avevano, infatti, già comunicato a Gioitta una imminente verifica in azienda, da effettuarsi dopo che lo stesso avesse raccolto tutti gli animali presenti nei terreni, in luogo idoneo per un controllo)». Secondo il gip non può essere messo in dubbio che «i due veterinari fossero perfettamente a conoscenza, e addirittura complici, della situazione d’irregolarità degli animali di Gioitta, che si concretizzava nella presenza di capi di bovini, caprini e suini clandestini o non identificati e, quindi, di dubbia provenienza». La sola presenza in azienda di animali non identificati, quindi con qualifica sanitaria sconosciuta, avrebbe dovuto far scattare i provvedimenti di sospensione della qualifica sanitaria, con il conseguente blocco di finanziamenti pubblici e della commercializzazione.

Nonostante ciò, durante «gli ultimi controlli» effettuati da Calanni Runzo, «tutti gli animali risultavano regolarmente identificati con boli e marchi» . La profilassi è fondamentale per evitare la diffusione di malattie infettive. Misure che, però, come affermato anche ieri in conferenza dal questore di Messina Giuseppe Cucchiara, «è evidente che non venissero però attuate»


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