Secondo l'agenzia Reuters, che ha intervistato il sedicente fratello del presunto comandante del barcone affondato il 18 aprile, Mohammed Alì Malek avrebbe fornito un nominativo falso alle autorità italiane. Nessuna conferma da parte del suo legale Massimo Ferrante
Naufragio, continuano gli interrogatori Dubbi sulla vera identità dello scafista
Si aggiunge un nuovo punto interrogativo sul tragico naufragio del 18 aprile scorso a largo delle coste libiche in cui potrebbero aver perso la vita circa 800 persone. Secondo l’agenzia di stampa Reuters l’accusato numero uno della tragedia, il presunto scafista tunisino Mohammed Alì Malek, avrebbe fornito agli investigatori un nominativo falso. A rivelarlo, senza specificare però il motivo, è stato Makrem Mahjoub, presunto fratello dell’uomo, che ha indicato il vero nome in Nourredine Mahjoub. La notizia non è stata confermata dall’avvocato Massimo Ferrante che assiste il presunto scafista. «Non conosco questa storia – spiega il legale a MeridioNews – e non è mai emersa in questi giorni». Ali Malek, stando a quanto riferito dal sedicente parente, sarebbe stato assoldato con la forza in Libia per condurre la nave verso l’Italia. Una scelta non casuale, in quanto l’uomo avrebbe lavorato come pescatore con il padre nella città costiera di Chebba. Il viaggio verso il vecchio continente non sarebbe stato inoltre il primo: «Cinque anni fa era stato in Italia e poi in Francia per poi tornare in Africa», afferma il presunto fratello.
Il comandante, prima della partenza, si sarebbe messo in contatto direttamente con il fratello Makrem. Nel corso di quella telefonata, effettuata da un numero libico, Alì Malek avrebbe raccontato di essere stato minacciato con delle armi. «Lo hanno portato alla barca – prosegue l’uomo -. Quando ha chiamato, era in stato di shock e piangeva». Secondo la versione fornita dallo stesso Alì Malek ai magistrati della procura di Catania che indagano sulla vicenda, il tunisino si è difeso dicendo di essere egli stesso un migrante come gli altri e di aver pagato una somma di oltre duemila dinari libici per la traversata. L’uomo, stando alla sua versione dei fatti, sarebbe stato prelevato alla frontiera con la Tunisia per poi trascorrere un giorno a Misurata. Dalla città libica sarebbe poi avvenuto il trasferimento in una zona di campagna nei pressi di Tripoli dove i migranti sono stati trattenuti prima dell’imbarco sul peschereccio. Alì Malek avrebbe infine individuato lo scafista in un soggetto non identificato di nazionalità libica.
Proseguono intanto nel palazzo di giustizia etneo gli incidenti probatori richiesti dalla procura di Catania. I primi testimoni sopravvissuti al naufragio, sono stati sentiti la scorsa settimana. In questa occasione sono emersi nuovi particolari della traversata. Oltre al comandante tunisino e al suo collaboratore siriano Ahmud Bikhit, i migranti avevano parlato di altri due membri dell’equipaggio di nazionalità somala, morti in mare, che si sarebbero occupati di controllare i livelli dell’imbarcazione in cui erano stipati. Punto centrale dell’inchiesta è l’esatta dinamica con cui è avvenuto l’impatto con il mercantile portoghese King Jacob che ha prestato i soccorsi in mare la notte del naufragio. Per diversi sopravvissuti, dopo un primo avvicinamento tra i due natanti, si sarebbero susseguiti tre forti urti fino al capovolgimento del barcone. Su questo passaggio il procuratore capo Giovanni Salvi ha in più occasioni escluso qualsiasi responsabilità da parte del comandante Abdullah Ambrousi Angeles e dell’equipaggio formato da 18 uomini di origini filippina.
«Oggi vengono sentiti due testimoni – spiega a MeridioNews Giuseppe Ivo Russo, difensore di Ahmud Bikhit, accusato di essere l’uomo che faceva rispettare gli ordini di Alì Malek -. Il primo, originario del Mali, non ha fatto riferimento al mio assistito. Per quanto riguarda il comandante, non lo aveva visto sulla nave, ma lo indica in foto solo dopo che gli è stato detto da un altro sopravvissuto. Ha raccontato del fatto che potevano muoversi all’interno della nave solo per andare in bagno. Non è vero che c’era qualcuno che somministrasse cibo sulla barca perché ognuno aveva il suo. Nella fattoria, invece, veniva fornito un primo pasto gratuitamente mentre i successivi andavano pagati».