Natale in casa occupata I ragazzi di via Calatabiano

C’era una volta una costruzione alta tre piani, fatta di quattro mura. E di un tetto sotto cui ripararsi. C’era una volta e c’è ancora. «Anche se il proprietario – spiega la piccola Chiara – vuole buttare giù tutto». Catania, quartiere Borgo, via Calatabiano 49. Solo un edificio a lungo disabitato, per il catasto. «La nostra casa», per trenta persone che l’hanno occupata e ci vivono dentro. «Siamo una sola, grande famiglia»: di questo è sicuro Mattia, che lo dice masticando due, forse quattro caramelle. E raccontando qualche frammento di vita e di quotidianità. Come fanno anche gli altri piccoli occupanti con parole, forse, un po’ più grandi della loro età.

Ogni nuovo giorno, per Chiara e per suo fratello Mattia, comincia prima che finisca il precedente. Dopo cena, zaino in spalla: «Andiamo con la
mamma o il papà a casa della nonna», che sta in un altro quartiere. Dormono là, a poche centinaia di metri dalla scuola che frequentano. È il solo modo «per arrivarci in orario senza doverci alzare dal letto troppo presto»: al mattino la macchina serve al papà per lavorare. Chiara, che ha preso otto in storia («ma la materia non mi piace»), fa i compiti «all’ultima ora, invece di giocare». È dispiaciuta perché alcuni compagnetti la prendono in giro. E, da quando si è trasferita, sente la mancanza di una persona: «La mia amichetta del cuore». Mattia vuole fare lo chef; gli piace il calcio ma non ci gioca spesso: «Perché sono un pantofolaio. La mamma dice che sono come mio padre». Studia «la notte, dalla nonna», che li ha accuditi entrambi quando i genitori – persa la casa – sono andati a vivere dagli altri suoceri. In via Calatabiano la famiglia è tornata a stare sotto un unico tetto e in una stessa stanza: «È più bello adesso, anche se a volte non ci è permesso entrare in camera».

A inizio dicembre le forze dell’ordine erano pronte a sgomberare il palazzo. «Ma noi bambini – spiega Chiara – sapevamo cosa fare. Per evitare che i poliziotti ci portassero via, dovevamo metterci al muro, legarci con le braccia l’uno con l’altro e stare sdraiati con le gambe incrociate». Non ce n’è stato bisogno: lo stabile è stato dichiarato agibile, «il proprietario ha sbattuto lo sportello della sua macchina» e lo sgombero non ha avuto seguito. Ma una delle occupanti era già salita sul tetto e aveva minacciato di gettarsi. I pompieri, in strada, hanno gonfiato il materasso per attutire l’eventuale caduta. «Abbiamo capito che non era un gioco, però sarebbe stato divertente tuffarsi su quel materasso pieno d’aria», dice Mattia. Diversa è stata la reazione di Alessandro, più grande di loro, che ha osservato la scena dal balcone mentre sua madre era sul tetto: «Sono rimasto impietrito dalla paura di perdere nuovamente la mia casa». Per cinque anni Alessandro ha dormito dentro un sacco a pelo, sognando di diventare, un giorno, macchinista di treni. «Il più bel regalo che potessi trovare sotto l’albero l’ho già ricevuto: questo Natale tornerò a festeggiarlo in una vera casa, insieme a una vera famiglia», dice mostrando un album con le foto dei suoi nonni masticato da Rocky. Si chiama così, il suo cane.

Persone prima sconosciute tra loro, ma con storie molto simili, condividendo la stessa casa adesso si dicono «ciao zia», «ciao zio». La famiglia si è allargata pure alla gente del
quartiere, che porta regali e pasti caldi a chi vive nel palazzo, e che mercoledì ha partecipato a una fiaccolata di solidarietà. «Da grande vorrei costruire case per chi non ne ha», dice Desy, che tra poco compirà diciotto anni, ha lasciato l’istituto alberghiero e sogna di potere studiare arte o architettura. Disegna da quando aveva otto anni e il suo ultimo lavoro è il logo del Comitato Casa x tuttiche sostiene l’occupazione sin dal primo giorno. «Sarebbe bello restare qui, tutti insieme, ma i soldi che servirebbero per mettere a nuovo la casa sono troppi», dice. L’esperienza in via Calatabiano ha cambiato il suo concetto di famiglia: «Una famiglia è fatta da persone che lottano insieme. Noi lottiamo per una casa, anche se non sarà questa. Una casa, che per i più piccoli significa diritto all’infanzia». Il Comune, finora, non ha preso posizione riguardo all’occupazione. «Farei vivere il sindaco Enzo Bianco due giorni nella nostra casa, così capirebbe come si sta senza la certezza di ciò che sarà domani», conclude Desy. Che parla con accento siciliano – ma non catanese – e non racconta perché. «Sono una cittadina del mondo», dice semplicemente.


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