I fatti risalgono al 2013. La vittima, ex ferroviere, iniziò ad avere fastidi il 28 febbraio. Per giorni il nosocomio e la Guardia medica avrebbero sottovalutato il caso. Domani è prevista la sentenza. «Poi scatterà la prescrizione, ma vogliamo la verità», dice il figlio
Morto dopo dimissioni da ospedale e visite rifiutate Sotto accusa ci sono tre medici di Militello e Scordia
«Mio padre è stato vittima di un festival degli orrori, non si può morire in questo modo nel terzo millennio». Otto anni dopo, il dolore per la perdita è fermo lì, così come il pensiero che le cose sarebbero potute andare diversamente. Francesco Simone, 74 anni, è deceduto il 7 marzo 2013, all’ospedale Basso Ragusa Mario di Militello in Val di Catania. Causa: setticemia. I familiari però sin dal primo momento hanno pensato che l’uomo non sia stato curato in maniera adeguata ed è per questo che attendono domani, quando al tribunale di Caltagirone potrebbe essere pronunciata la sentenza sul processo nato dal presunto caso di malasanità. «Gli elementi che lo dimostrano sono chiari», afferma Domenico, il figlio del 74enne, che con i familiari segue la vicenda. Alla sbarra con l’accusa di omicidio colposo ci sono Gaetana Fragalà, 73enne all’epoca medica del Pronto soccorso; il 50enne Francesco Scirè, anche lui medico nella stessa struttura; e Gaetano Barresi, 63enne in servizio alla Guardia medica di Scordia. Per quest’ultimo l’accusa è anche di rifiuto d’atti d’ufficio e omissione.
Il calvario del 74enne, ex capo stazione per Ferrovie delle Stato, ha avuto inizio il 28 febbraio di otto anni fa. La sera l’uomo si presenta alla Guardia medica lamentando un dolore al fianco destro. Viene visitato e dimesso con il suggerimento di utilizzare un farmaco antispastico per quello che viene definito «dolore intercostale». La situazione però si fa già più seria l’indomani: dolori, vomito, tremori e disturbi alle vie urinarie, spingono i familiari a chiamare il 118. I sanitari dispongono il trasferimento al Pronto soccorso del Basso Ragusa di Militello. Qui Francesco Simone arriva nel pomeriggio, poco prima delle 16. A prenderlo in carico è la dottoressa Fragalà, che dopo averlo tenuto in osservazione lo dimette certificando uno stato di iperpiressia. Che, in parole più semplici, significa febbre molto alta. «Già quel giorno i parametri degli esami di laboratorio indicavano un’infezione in corso, ma per il medico ciò era motivato da un guasto alla macchina», dichiara il figlio del 74enne a MeridioNews. La situazione si ripete sostanzialmente l’indomani: «Mio padre ha iniziato a stare ancora peggio e intorno a mezzogiorno del 2 marzo ci siamo ritrovati al Pronto soccorso, dove è arrivato in ambulanza», continua l’uomo.
Francesco Simone era un soggetto già affetto da diverse patologie: «Andava considerato come un paziente ad alto rischio per via del diabete mellito, l’ipertensione, senza contare un precedente ricovero a Lentini per prostatite acuta febbrile mentre quindici giorni prima aveva subito un intervento di disostruzione carotidea al centro cuore Morgagni». Tuttavia anche quel giorno le cose non cambiano molto: l’uomo, dopo alcune ore di osservazione, viene dimesso per iperpiressia da cistite e gli vengono prescritti dei farmaci che non sarebbero stati idonei a contrastare la gravità delle condizioni in cui si trovava. Si arriva così alla notte di lunedì 4 marzo: l’uomo sta male, sembra quasi catatonico. I familiari chiamano la Guardia medica chiedendo una visita domiciliare, ma dall’altro capo della cornetta il medico Gaetano Barresi si limita a prescrivergli un farmaco antiemetico, il Plasil, non ritenendo necessario visitare di presenza il paziente. «Mio padre torna in ospedale la notte del 5 marzo in arresto cardiaco, viene rianimato e riprende conoscenza – racconta il figlio -. Solo allora viene deciso il ricovero, ma nel reparto di Medicina, nonostante il primario avesse ritenuto che fosse meglio portarlo in Terapia intensiva». Su questo punto il primario, davanti alla polizia giudiziaria, ha detto di non avere suggerito il trasferimento in Rianimazione, ma che ad averlo detto a voce potrebbe essere stato un collega. «Mio padre morirà alle 5 del mattino del 7 marzo, quando ormai l’infezione era già troppo avanzata», conclude Domenico Simone.
A originare la setticemia è stato il batterio escherichia coli. La diagnosi arriva soltanto il 9 marzo, due giorni dopo la morte. Ed è dietro a questi ritardi nel disporre gli esami specifici di laboratorio che ruota l’intera vicenda giudiziaria. Al processo, infatti, si è arrivati dopo una prima richiesta di archiviazione chiesta dalla procura di Caltagirone, sulla base di una perizia tecnica che non ravvisava comportamenti negligenti nell’operato dei medici. «Ci siamo opposti e il gip in fase d’indagine ha disposto la nomina di un collegio di periti», sottolinea Domenico Simone. Gli esperti nominati, tutti provenienti da fuori la Sicilia, hanno analizzato le cartelle cliniche e in più punti smontato la prima perizia, sottolineando anche che sarebbe stato molto utile disporre l’autopsia. Ciò ha portato la procura, nella primavera del 2018, a cambiare posizione e chiedere il rinvio a giudizio. «Il dottore (il primo perito, ndr) – si legge nella relazione depositata dagli esperti – sconosce che una banale urinocoltura con relativo antibiogramma può essere eseguita e refertata, in caso di urgenza, in 48 ore. Se ciò fosse avvenuto, certamente il paziente non sarebbe deceduto per sepsi». Questo passaggio è fondamentale in quanto, stando alla prima perizia, non sarebbe stato possibile – anche nel caso l’esame fosse stato disposto in occasione della prima visita al Pronto soccorso, l’1 marzo – ottenere i risultati in tempi utili.
«Abbiamo perso mio padre per una concomitanza di comportamenti irresponsabili e ora vogliamo giustizia», commenta il figlio. La sentenza, che potrebbe arrivare già domani, potrebbe paradossalmente interrompere il percorso giudiziario di questa storia. «Siamo consapevoli che tutti gli imputati, nel caso di appello, riuscirebbero a ottenere la prescrizione delle accuse perché – spiega – la riforma che blocca i tempi dopo la sentenza di primo grado non è retroattiva. Per noi familiari, però, resta un momento importante in quanto rappresenterebbe l’affermazione di un principio di giustizia». In questi anni, Domenico Simone ha raccolto diversi articoli di giornale: «Riguardano tutti fatti accaduti all’interno dell’ospedale di Militello e ricordano la storia di mio padre. La sensazione è che ciò che è capitato a lui non sia stato un caso isolato».