Cinquant’anni d’amore e di vita insieme tra teatro, scultura, restauro, pittura, pasticceria e lavorazione del cuoio. Gina Previtera e Nino Pracanica, artigiani in pensione, accolgono ogni giorno turisti e viaggiatori nei locali del Monastero delle Benedettine, all’interno della Fortezza di Milazzo. Si è subito attratti dalle maschere in cuoio, dall’aspetto espressivo e cangiante. «Vuole conoscere il mio curriculum? Allora: intanto sono il marito di mia moglie; poi una comunità greco-italica mi ha accolto come fratello». Esordisce così Pracanica, con approccio umile, senza trascurare l’aspetto più intenso del gioco teatrale e le doti narrative del cuntastorie. «Queste – dice, parlando di ciò che gli è più caro – non sono le mie creazioni ma sono frutto di condivisione: vengono anche dalle mani di mia moglie Gina, insieme al lavoro delle nostre figlie Claudia e Francesca».
Dall’estro creativo e da tecniche antiche di lavorazione, nel corso degli anni, sono nate opere in costante mutamento e movimento. L’artigiano, infatti, non ama definirle maschere: «Sono imagines, volti». Oltre al cuoio, le non-maschere «in grado d’interagire con la mimica di chi le indossa» sono realizzate riutilizzando tessuti, materiali differenti e tutto ciò che, recuperato, risulti adatto «per dare continuità alla materia». I due coniugi, uniti sentimentalmente e professionalmente dal 1974, hanno fondato l’associazione Imago Vitae che da oltre quarant’anni propone eventi culturali nel settore delle arti figurative, teatrali ed artigianali. Una passione che permette a Gina e Nino di entrare in contatto con migliaia di visitatori, provenienti da ogni parte del mondo.
Indossato una sorta di ornamento pettorale in macramè, solcato da intrecci elaborati, figure e semplici nodi, il cuntastorie ripercorre per simboli la storia delle genti che hanno calcato il suolo della Trinacria: «È un grembo materno che accoglie popoli diversi: questi si confrontano coi Siculi e ne traggono una crescita», afferma. Parole e gesti conducono i visitatori verso una dimensione sacrale che passa dalla quotidianità. «Ogni festa, sacra o profana che sia, – rivela – ci ricorda chi siamo. Così le divinità materne si tramandano da Iside a Sant’Agata, mentre la storia dei giganti di Messina, centrata sull’unione tra una donna normanna e un arabo, racconta un matrimonio culturale».
«Nel raccontare la Sicilia – precisa – stravolgo ciò che gli altri raccontano per renderlo attuale, in modo da trasmetterlo alle giovani generazioni. E per far questo utilizzo il gioco fatto di parole, materiali e forme. Giocando ricostruisco l’incontro tra culture diverse, nel quale contraddizioni e incertezze generano ricchezza».
Poi l’artigiano, che non vuol farsi chiamare artista, tramite le sue imagines diviene sceicco, scirocco, ciclope, spirito di un’epoca e torna a sorprendere gli ascoltatori. «Mentre il mondo sta operando una rottura epocale col passato – prosegue – io spiego ai bambini l’importanza di conservare il nostro linguaggio tradizionale». Stavolta lo fa con la leggenda di Colapesce per ricordarne le radici più profonde, frutto di un’isola culla di svariate civiltà. «Maestà, ma lei che ne sa dell’amore di noi siciliani per questa terra?», domanda Colapesce a Federico II di Svevia, accompagnato dai ritmi ancestrali del tamburello e marranzano.
Lasciando correre la vista, il senso di meraviglia non ha riposo. Per gli oggetti, ma soprattutto perché ci si rende conto di come, attraverso essi, Gino e Nina esprimano al mondo una lingua e un pensiero propri. Tra volti di Dei, ciclopi, paladini, trinacrie, icone bizantine, cornici, stemmi e simboli sembrano rincorrersi storie ed epoche differenti, alle quali le mani e i cuori di due rari artigiani, innamorati della Sicilia, tornano a dar voce.
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