Migranti, chiesti tre ergastoli per scafisti Nel naufragio morirono oltre 200 persone

Il naufragio risale al 5 agosto 2015: il barcone sul quale viaggiavano circa 650 persone si rovesciò nel momento in cui una nave irlandese si avvicinò per prestare i primi soccorsi, inabissandosi in breve nel canale di Sicilia. Furono subito recuperate 26 salme, mentre circa 200 migranti restarono intrappolati nello scafo dell’imbarcazione, scomparendo nel mare. Per questa tragedia sono stati accusati, grazie alle testimonianze dei superstiti, cinque presunti scafisti. Di questi, Suud Mujassabi e Shauki Esshaush sono sottoposti a processo ordinario davanti alla corte d’assise. I restanti tre, invece, hanno scelto il rito abbreviato: si tratta di Ali Rouibah, Imad Busadia e Abdullah Assnusi. Per loro questa mattina è stato il momento di confrontarsi con i pm Claudio Camilleri e Renza Cescon, che hanno pronunciato le loro conclusioni e chiesto la pena dell’ergastolo per ognuno dei tre imputati. L’accusa è quella di aver procurato l’ingresso nel nostro Stato di persone di varia nazionalità. Per il reato, invece, di omicidio plurimo in un primo momento il gip Giuliano Castiglia non aveva ritenuto che fosse accertata l’effettiva causa della morte dei 26 migranti recuperati. Il tribunale ha però accolto il successivo appello dei magistrati e predisposto la custodia cautelare anche per il delitto di omicidio volontario.

Impossibile, infatti, secondo i pm non ritenere i presunti scafisti responsabili della morte di quei migranti: «La navigazione era avvenuta in spregio delle più elementari regole di sicurezza – si legge nella sentenza della Cassazione che ha annullato la decisioni del gip di scarcerazione – Il natante era fatiscente, il motore si era spento poche ore dopo, la barca aveva una falla da cui entrava acqua, soltanto pochi individui avevano il giubbotto di salvataggio», cioè gli stessi scafisti e i migranti in grado di pagarlo, «il natante – si legge ancora – era stipato oltre ogni immaginazione: circa 600 persone, di cui 200 nella stiva ed altri collocati sulla botola di accesso alla medesima, rendendo impossibile l’uscita o la fuga». Gli scafisti, quindi, non potevano non sapere in quali condizioni stavano costringendo a viaggiare i migranti.

A questo si aggiungono le continue violenze subite durante tutto il viaggio: gli scafisti, infatti, «avevano a più riprese picchiato e vessato i migranti per tenere l’ordine sull’imbarcazione, costringendoli a rimanere seduti e immobili». Colpisce, fra i tre, la descrizione che i testimoni fanno di Imad Busadia, che «aveva mostrato un’indole particolarmente violenta e un deciso disprezzo per il prossimo, così da far capire che avrebbe accettato il rischio che altri perdessero la vita pur di realizzare il proprio progetto. Il suo fine – si legge in un altro passaggio della stessa sentenza – era quello di lucrare un vantaggio economico dal viaggio illegale». Nelle prossime settimane toccherà ai difensori pronunciare l’arringa, alla quale i pm contano di replicare.


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