Migranti, ancora in mare le salme del naufragio «Ottocento morti e nessuna verità per i parenti»

«Sono già passati due mesi dalla tragedia. Sappiamo come vanno avanti queste cose: quei corpi o si recuperano adesso o non si recuperano più». Le oltre ottocento vittime del naufragio nel Canale di Sicilia del 18 aprile 2015 sono ancora in fondo al mare. A 370 metri di profondità, in balia delle correnti sottomarine al largo della Libia. «Abbiamo il compito di dare una sepoltura, dimostrando all’Europa che non si deve chiudere gli occhi», aveva detto il premier Matteo Renzi all’indomani della chiusura delle indagini sulla strage, la più grave di sempre nel Mediterraneo. Eppure dal 21 maggio a oggi è passato quasi un mese, «e quei cadaveri sono ancora là». A ricordarlo è la Rete antirazzista catanese che, in vista della giornata mondiale dei rifugiati, il prossimo 20 giugno, rinnova l’appello per il recupero delle salme. A firmarlo già una cinquantina tra associazioni e semplici cittadini, tra i quali anche l’eurodeputata Barbara Spinelli e Giovanni Impastato, fratello di Peppino.

«I costi di un’operazione simile sono notevoli – afferma Alfonso Di Stefano, responsabile della Rete antirazzista – Se aspettiamo ancora rischiamo che, con le correnti sempre più forti, il recupero diventi più difficile. E maggiormente dispendioso». Per questo, anche in vista di sabato e della giornata mondiale voluta dalle Nazioni Unite, il tentativo è quello di «costruire una rete affinché questo tema si sposti da Catania e diventi di interesse nazionale. I parenti delle vittime aspettano da mesi di poterle riconoscere e sono ancora in attesa anche di verità e giustizia», spiega Di Stefano. E aggiunge: «Siamo convinti che portare via dal mare il relitto possa essere utile anche per capire la dinamica dell’incidente. Molti testimoni hanno raccontato dell’impatto con la nave che li ha soccorsi». Un impatto che, come più volte ribadito dalla procura di Catania, non avrebbe causato l’inabissamento. Che invece sarebbe stato dovuto alle manovre errate del comandante della nave, il presunto scafista tunisino Mohammed Alì Malek.

«Non vogliamo assistere alle solite promesse non mantenute – prosegue l’attivista – Da una parte si lasciano i cadaveri in mare. Dall’altra si tenta di impedire alle associazioni di fornire assistenza ai migranti in arrivo». Il riferimento è alle «nuove disposizioni della questura di Catania». Che impedirebbe l’accesso alle banchine ai non autorizzati. «Bisogna accreditarsi in prefettura. E quali sono i criteri per ottenere l’accesso alle operazioni di sbarco? Noi non li conosciamo», continua Di Stefano. Che ricorda: «Solo tre giorni fa volevano impedirci di assistere alle operazioni. Avevamo uno striscione con la scritta “Chiudiamo i lager, apriamo le frontiere“. Solo dopo un quarto d’ora sono venuti a dirci che potevamo restare se non davamo fastidio». Un fatto che, se anche si è concluso al meglio, «non lascia intendere che ci siano buone prospettive per l’accoglienza». «I migranti non possono avere i militari come unica interfaccia – conclude Di Stefano – Serve che ci siano contatti umani, che li informino dei loro diritti e che intervengano in sostegno dei mediatori culturali. A noi non interessa esserci e basta. A noi interessa esserci per fornire aiuto reale».


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