Conosciuto per i suoi componimenti erotici e per qualche storiella colorita, il catanese Domenico Tempio è stato il più grande poeta siciliano del Settecento, annoverato tra i migliori innovatori di sempre, maestro di rivolta letteraria, satira contro il potere e libertà linguistica. A quasi 200 anni dalla morte, un libro - scritto da Francesco Giordano - rivela gli aspetti sconosciuti del «Dante di Sicilia», nascosti da tempo, censure e pregiudizi
Micio Tempio, poesia morale e versi vastasi Un «rivoluzionario della libertà» dimenticato
«Rivoluzionario della libertà, poeta della modernità, autore per eccellenza della lingua siciliana e cantore della nostra Catania». Così lo studioso catanese Francesco Giordano definisce Domenico Tempio, poeta etneo vissuto nella seconda metà del Settecento e oggi, dopo un lungo periodo di censura ed oblio, conosciuto per lo più per i suoi versi erotici e licenziosi in dialetto siciliano. Ma molti non sanno che Micio Tempio, così lo chiamano i suoi concittadini, insieme al palermitano Giovanni Meli, fu il più importante poeta siciliano del suo tempo, oltre ad essere considerato uno tra gli autori più riformatori e moderni di sempre. La sua penna, infatti, non tracciava sul foglio solo componimenti libertini, ma fustigava i costumi dell’epoca con la più pungente delle satire, analizzando e criticando la società e i suoi protagonisti, condannando falsità e ipocrisie. E che, per il suo capolavoro, La Carestia (un poemetto in venti canti pubblicato postumo), fu definito dalla critica moderna il «Dante di Sicilia».
Eppure, ancora oggi, per i catanesi Domenico Tempio è noto solo per le «poesie vastase», per qualche storiella dai toni coloriti e per un mezzo busto dal naso scalfito tra i vialetti del Giardino Bellini. Ma c’è molto di più. A fare emergere gli aspetti sconosciuti – o dimenticati – della figura tempiana, a quasi 200 anni dalla sua morte, un volume dal titolo Domenico Tempio cantore della libertà, scritto proprio dallo storico e studioso Francesco Giordano e presentato mercoledì pomeriggio nella sede della Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale. «Per molto tempo – spiega l’autore – Tempio fu definito un poeta pornografo, ma i versi licenziosi, mai fini a loro stessi, gli servivano in realtà a rompere gli schemi e ad incitare alla ribellione quella che allora era la borghesia nascente». Per sfatare luoghi comuni e non cedere a falsi moralismi, trattando anche «temi forti, con parole audaci ma che non denigrano», afferma. E che, nonostante le accuse che a lungo perseguitarono la sua poetica, non fu mai antimorale perché «non pubblicò mai gli scritti erotici di sua volontà».
Un «poeta della ragione» che non deve e non può essere «catalogato solo come un autore licenzioso», spiega Santo Privitera, scrittore e moderatore dell’incontro. Fama che gli si è attaccata addosso per quasi tutto l’Ottocento e metà del Novecento, periodo in cui parte delle sue opere subì la censura – per essere rivalutata solo dopo la seconda guerra mondiale – e lo scrittore catanese fu lentamente dimenticato. Eppure Tempio è stato un intellettuale molto apprezzato dai suoi contemporanei, che vide grande fama anche in vita. E che oggi, grazie alla sua concezione del rapporto con il potere, è moderno più che mai. «Tutto cambia per non cambiare nulla»: sembra scritto oggi, ma a vergare queste parole è stata la sua penna più di due secoli fa. Per questo, secondo Privitera, «la sua figura deve essere rivalutata e i suoi scritti diffusi a partire dall’insegnamento nelle scuole».
«Era un appassionato della vita e della poesia, per questo scriveva tutto quello che pensava», sottolinea Privitera. Senza contare che «per lui, la poesia erotica era solo un modo per tenersi in allenamento e far divertire gli amici. E invece si rivelò quella che il popolo leggeva di più». Forse anche per la sua scrittura libera e un linguaggio – un «dialetto ricercato» – diretto e vicino ai nobili – che all’epoca non parlavano italiano – ma sopratutto al popolo, di cui criticava ignoranza e mentalità, accostando, in alcune opere, i comportamenti umani a quelli di animali o oggetti. Un modo di scrivere, il suo, «naturale, fatto di libertà e di satira contro il potere». Con il quale fu «giacobino e rivoluzionario dal punto di vista letterario». Nel nome di ogni forma di libertà. Che però, come si legge in calce ad uno dei suoi manoscritti – pubblicati per la prima volta nel volume antologico di Giordano – considerava «un dono micidiale per chi non ha forze e qualità bastanti a poterla sostenere».
Fu proprio la libertà il fulcro della poetica tempiana, nutrita da passione per la poesia e dal pensiero illuministico e che in quel tempo si andava formando anche tra gli intellettuli etnei. E in cui si sviluppò la sua forma mentis. Tempio, infatti, nato nel 1750, «si formò nel pieno fervore di ricostruzione architettonica (la città esce da due catastrofi spaventose: l’eruzione dell’Etna nel 1669 e il terremoto del 1693) e culturale», spiega Giordano. Qui, Tempio, inizialmente indirizzato agli studi in seminario – che poi lascio per quelli umanistici – ebbe «insegnanti illuminati», entrando in contatto con l’allora vescovo Salvatore Ventimiglia – «uomo attento al risveglio intellettuale della città» – e i «salotti infiammati di cultura» del principe Ignazio Paternò Castello di Biscari, al centro delle «istanze giacobine della massoneria settecentesca, quando la Sicilia era terra di cospirazioini rivoluzionarie e una Catania illuminata faceva parte del circuito della grande cultura europea», sottolinea lo studioso.
Domenico Tempio, allora, fu un personaggio «sulfureo, peccaminoso, che cadde in miseria, visse con i sussidi degli amici e diede scandalo convivendo con la sua cameriera, Caterina, da cui ebbe anche un figlio», racconta Giordano. Con un percorso umano interessante, uno poetico fondamentale e uno «iniziatico molto importante, fatto di simboli massonici e significati occulti, anticlericali ed esoterici». Ancora oggi incompresi e sconosciuti. Ma che, contrariamente a quanto si crede, fu un «poeta morale», conclude l’autore. Perché, come diceva Voltaire, «la morale non sta nella superstizione, ma è la medesima in tutti gli uomini che fanno uso della ragione».