Michael Moore, il regista supereroe

Micheal Moore un giorno arrivò al college in cui era iscritto, non trovò parcheggio e decise di lasciare gli studi.
Che sia un tipo bizzarro è evidente a tutti: la sua mole possente, le sue t-shirt enormi, i suoi occhiali spessi e il suo immancabile berretto da baseball.
Il regista americano, è vero, è un tipo un po’ strano; Ma le cose che dice lo sono molto di più.
La sua vita è da sempre densa di scontri, liti e battibecchi e lui ha ormai fatto di necessità virtù.
Da tempo, infatti, è dedito a combattere i soprusi e a svelare gli inganni. Lo scrive, lo filma o lo recita: il mondo così com’è  non gli piace e la colpa è del Paese dove vive, gli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti, il Paese dove la sua famiglia, un secolo fa arrivò dall’Irlanda e dove lui è cresciuto, è stato educato, e ha trovato moglie.
Gli Stai Uniti, la terra delle libertà, dove lui può scrivere che il Presidente è un idiota o che il Presidente è un amico di un terrorista, o che il Presidente fa la guerra per poi guadagnarci su.
Gli Stati Uniti, il posto dove gli americani, gli stupidi americani, i rozzi americani, gli ignoranti americani vivono e vanno a vedere i suoi film o comprano i suoi libri.

Michael Moore è ormai un star, la gente lo acclama, i giornalisti fanno a botte per intervistarlo (vedi Cannes), i suoi colleghi artisti del cinema gli dispensano premi e celebrazioni.
Le sue imprese sono ormai celeberrime: il regista supereroe individua il cattivo e lo smaschera. Lo costringe alla resa o almeno lo sputtana.

Lo fece anni fa con il suo documentario “Roger&me”, dove raccontava il tramonto della cittadina dove è nato, Flint,nel Michigan, alla chiusura dello stabilimento automobilistico dalla General Motors.
E lo fece, con maestria, nel 2002 con il documentario premiato con l’Oscar, Bowling for Colombine.
Questa volta il suo obbiettivo erano la National Rifle Association (Nra), lobby delle armi da fuoco, e più in generale, l’amministrazione della Casa Bianca che permetteva e permette il commercio indistinto di armi. La società americana nel suo intero e nelle sue più profonde paure è analizzata, attraverso argomentazioni, ricostruzioni e agghiaccianti testimonianze.

Esce, o forse sarebbe meglio dire “dovrebbe uscire”, a luglio il suo nuovo documentario shock, appena premiato con la Palma d’Oro a Cannes 2004, Fahrenheit 9/11. La temperatura a cui brucia la verità. Ricostruzione di ciò che successe prima, durante e dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Ma soprattutto analisi accuratissima dei rapporti tra la famiglia Bush e quella Bin Laden.
Attraverso delle domande dirette allo stupid white man (G.W.Bush) il regista supereroe ricostruisce i legami della famiglia texana con quella saudita. In affari da anni queste due famiglie andrebbero a braccetto nel governare il mercato globale dell’oro nero.

E’ difficile stabilire se Moore sia nella direzione giusta. E’ indubbio che con il suo operato stia dando una belle svegliata al popolo americano, a tratti davvero bacchettone, ma sarà il modo giusto di sensibilizzarlo?
Significative risultano a proposito le dichiarazioni di un personaggio che di cinema e di quello che il cinema rappresenta se ne intende e che percepisce che qualcosa nel modo di agire di Moore non va.
Il registra svizzero Jean Luc Godard ha detto: “Film come quello di Michael Moore finiscono per aiutare Bush. Il presidente americano o e’ meno stupido di quello che sembra o lo e’ totalmente, in ogni caso non cambiera’”.

Giorgio Pennisi

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