Medaglia al valore a Carmelo Iannì a 39 anni dall’omicidio «Lo Stato lo ha sempre ignorato, non ci speravamo più»

Ormai sono passati quasi 39 anni da quando Carmelo Iannì ha pagato con la vita il suo contributo di onestà offerto allo Stato. Che solo oggi sembra improvvisamente ricordarsi di lui e della sua storia, decidendo di attribuirgli una medaglia d’oro al valore civile, che verrà consegnata alle sue figlie in occasione delle celebrazioni del 2 giugno a villa Pajno. Ma ne è passato davvero tanto, forse troppo, di tempo da quel 28 agosto 1980. Quel giorno, come tutti gli altri, Carmelo Iannì è al suo albergo a Villagrazia di Carini, Riva Smeralda, quello che un giorno sogna di acquistare. Ma non accadrà mai, perché quella mattina due killer a volto scoperto (ma mai individuati) entrano in albergo e lo uccidono. Un’esecuzione decisa direttamente da dietro le sbarre, dal boss Gerlando Alberti, arrestato solo quattro giorni prima nel bel mezzo della sua latitanza.

Una vendetta in pieno stile Cosa nostra, per punire quel cittadino che aveva collaborato a quell’arresto. Il blitz infatti era stato preceduto da delicate indagini sotto copertura condotte proprio in quell’albergo e realizzate con l’appoggio e la complicità di Iannì, che ha permesso agli agenti di raccogliere le prove necessarie per incastrare alcuni chimici marsigliesi che si occupavano, con i padrini palermitani, della raffinazione della droga. Gli stessi agenti sotto copertura, però, hanno poi arrestato il boss e i suoi complici a volto scoperto tradendo involontariamente il piano allestito per incastrarli e palesando di conseguenza anche il fondamentale coinvolgimento di Iannì, che si era prestato. «Questo riconoscimento, atteso da tempo, non può che inorgoglirmi – dice oggi una delle figli di Carmelo, Liliana Iannì -. Mi rammarica soltanto che la mamma non ci sarà, ma in quella giornata con le mie sorelle Roberta e Monica lei sarà tra noi ed insieme al mio papà saremo nuovamente insieme». La signora Giovanna Iannì, infatti, è scompara a marzo.

«Non ci speravo più», commenta ancora Liliana, tra quelli che in famiglia si è spesa di più per arrivare a questo riconoscimento. «Penso che il mio papà meritasse questa attenzione da parte di uno Stato che, non avendo un nome noto, lo ha ignorato per 38 anni – osserva con un pizzico d’amarezza -. Nel 2007, in virtù delle disposizioni che la legge in favore delle vittime di terrorismo di cui noi facciamo parte prevedeva, ho mandato la prima mail sul sito del Quirinale, mi ignorarono per diversi anni ma io imperterrita continuavo a reiterare la richiesta». Una risposta arriva finalmente tre anni fa, ma non è esattamente quello che la famiglia aveva sperato di sentire. «Mi risposero che l’azione in cui rimase ucciso mio padre non poteva configurarsi tra quelle previste dalla legge quindi mi ero rassegnata». Una presa di posizione che la famiglia non sa come accogliere, come commentare. «Parliamo dello stesso Stato che ha coinvolto il mio papà in una azione di polizia, con l’obiettivo di sconfiggere il traffico di stupefacenti, cosa che interessa tutta la collettività».

«Mio padre non era un addetto ai lavori – torna a dire -, quella leggerezza di fare il blitz con gli stessi agenti infiltrati l’ha pagata con la vita. Spero che questo riconoscimento nasca da un sentimento sentito, in ogni caso per noi è motivo di orgoglio». Dopo pochi mesi dall’iniziale diniego, infatti, è arrivata l’ufficialità. Ma, orgoglio a parte, quella della famiglia Iannì rimane una ferita sanguinante. E le domande aperte che martellano la testa non riescono a sopirsi neppure dopo quasi quarant’anni da quel giorno. Una fra tutte, se quel delitto poteva essere evitato. «Purtroppo nessuno potrà dircelo, sono anche convinta che per quegli anni non doveva essere facile mantenere un segreto e poi i sistemi investigativi non godevano di tecnologie che oggi sono importanti. Comunque sia non ce l’ho con le forze dell’ordine -sottolinea Liliana -, seguo un progetto per le scuole sulla legalità. Io e le mie sorelle siamo andate avanti e il parlare della nostra storia ci ha forse aiutato a conviverci, ora forse più persone conosceranno il mio papà».


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