Nell'inchiesta che ha portato all'arresto di quello che, per la procura, è il gotha della cosca, emerge il ruolo della compagna del capomafia, detenuto al 41 bis. Tornata nella sua Napoli dopo la scarcerazione, sarebbe un «punto di riferimento». Tanto che i presunti fedelissimi del marito viaggiano spesso per andarla a trovare
Maria Campagna, Penelope del clan di Turi Cappello Il boss alla moglie: «Quello deve parlare solo con te»
I magistrati della procura di Catania ne sono certi, il legame tra Salvatore Turi Cappello e la sua compagna, Maria Campagna va oltre il sentimento alla base di una normale relazione di coppia. È un rapporto di mafia, sostengono. Fatto di fiducia cieca e di affari. Talmente forte da anteporre la donna agli uomini che hanno aiutato la sua escalation criminale, e da spingere gli inquirenti a definirla vero e proprio alter ego dello storico capomafia. La Penelope che dà il nome all’inchiesta e che, come la regina del mito, attende il ritorno di Odisseo mentre regna sugli affari di Itaca. In questo caso rappresentata dal business di uno dei clan meglio radicati sul territorio catanese. Esterno alla Cosa nostra, ma centrale all’interno degli equilibri malavitosi nonostante la carcerazione del suo vertice. A marito e moglie, infatti, gli inquirenti contestano in egual misura il reato di associazione mafiosa indicandoli come attuali capi e promotori del clan su Catania e provincia, dal maggio del 2012 fino a oggi.
Un controllo, quello sugli affari, che la donna però gestirebbe a distanza. Dal giorno in cui ha finito di scontare una condanna per mafia, nel marzo 2011, Campagna è tornata a Napoli, sua città natale, insieme al figlio avuto da Turi, Santo Cappello. Che da poco, proprio lì, gestisce la pizzeria I due vulcani. Secondo la procura etnea l’allontamento dalla città di Catania, scelto volontariamente, non è mai stato «un impedimento al mantenimento dei propri rapporti con il sodalizio criminale di appartenenza». Tanto che, per quello che emerge dalle indagini, importanti componenti della cosca, come Santo Strano, effettuano periodici viaggi nel capoluogo campano proprio per parlare di persona con lei. L’uomo, stando alle accuse, dall’ottobre del 2012 avrebbe ricoperto il ruolo di capo operativo del clan, attivo sul territorio, sempre sottoposto però al controllo di Maria, in libertà, e in ultimo del boss Cappello, in carcere. In un colloquio tra i due coniugi il capomafia spiega alla moglie, di cui si fida chiaramente di più, di comprare un telefono per Strano, dal quale l’uomo avrebbe solo potuto ricevere telefonate da lei. «Compri questi usa e getta – spiega Cappello – e glielo dai a lui… Senza che, per dire, fai… Se no lui poi chiama ad altri… Gli cancelli tutto, gli metti lo scotch solo per ricevere. Lo hai capito?». La donna, più volte, fa segno di sì con la testa.
Ma non solo. In virtù del suo stretto rapporto di parentela, in quanto consorte del reggente, alla donna verrebbe riconosciuto un vero e proprio stipendio periodico proveniente, secondo gli investigatori, dalle attività illecite della cosca. Un particolare che viene rivelato dagli altri indagati dell’inchiesta, come Calogero Balsamo che, intercettato al telefono, spiega al suo interlocutore: «Noi ad esempio abbiamo a Turi Cappello… Turi. Turi Cappello, ogni mese, sono diecimila euro… Noi che mandiamo.., Perché c’è sua moglie che deve fare il colloquio e ci va con l’aereo». Un metodo di spostamento che suscita ammirazione: «Lì c’è un’altra mentalità», continua Balsamo. Queste somme verrebbero nascoste da Maria Campagna, che si dice sostanzialmente nullatenente davanti al fisco, dichiarando redditi «insufficienti anche al semplice soddisfacimento dei bisogni primari». Ma che, come ricostruiscono le forze dell’ordine, fornirebbero la base per gli investimenti necessari all’apertura del ristorante del figlio.
Sono diversi gli episodi raccontati all’interno dell’ordinanza di custodia cautelare che mostrerebbero il ruolo della signora Cappello, o della zia Maria come diverse volte viene chiamata. Di lei si parla spesso nelle intercettazioni telefoniche e ambientali tra alcuni degli uomini considerati i principali esponenti del gruppo. Ma anche nei verbali degli interrogatori. Come quello in cui un altro indagato, Giuseppe Raffa, affermava a chiare lettere che la Campagna rappresentava di fatto il trait d’union tra il clan Cappello e il suo capo dietro le sbarre, al 41 bis, e che la donna discuteva proprio di affari del gruppo mafioso. «Facci i palemmu (Santo Strano, ndr) na vota a simana, na vota ogni 15 ionna, si ni va a Napoli, iavi u contattu cu Napoli, ca famigghia da patti, Turi Cappeddu iavi parenti, c’avi collegamenti». Che tradotto dal dialetto, più o meno, significa: «Santo Strano una volta a settimana, o una volta ogni 15 giorni, va a Napoli perché ha contatti con la famiglia da quelle parti. Lì Turi Cappello ha dei parenti, alcuni collegamenti».
Cioè Maria Campagna. Capace, secondo Domenico Querulo, interrogato dagli investigatori, di risolvere una controversia legata a un debito di droga, viaggiando da Napoli verso la Sicilia. Campagna insomma, secondo i pubblici ministeri non è soltanto una «consapevole spettatrice dell’attività svolta dal compagno», ma un punto di riferimento. «La mia fortuna è stata Maria di Napoli», dice intercettato Giuseppe Guglielmino, imprenditore del settore dei rifiuti, anche lui finito tra le trame della tela della Penelope degli inquirenti. Starebbe parlando, secondo la ricostruzione della magistratura, dell’incendio di due camion avvenuto a Siderno da parte della malavita calabrese. «Il suo primo marito è calabrese e si ci è messo lui in mezzo. Perché io l’ho sistemata con il nome della “famiglia di Maria” – prosegue Guglielmino – E con questa scusa siamo andati dal suo ex». Un fatto che, però, il capomafia non avrebbe mai dovuto conoscere: «Mi ha detto – riporta Guglielmino . “Se lo sa Turi ci spara. A tutt’e due ci spara…“».