Unico figlio maschio di un genitore che ha sempre imposto qualsiasi scelta, a 21 anni non sa come dichiarare la propria omosessualità. Le voci diffamatorie nel paese, assieme all'impegno nel circolo siracusano dell'associazione, infrangono l'equilibrio imposto con l'autorità
Marco, botte dal padre per le dicerie del paese «Non sapevo come dirgli che sono gay»
Marco (il nome è di fantasia) è l’unico figlio maschio di un padre dal carattere forte e autoritario. Un genitore determinato a tracciare davanti ai piedi del ragazzo una strada fatta di passi già stabiliti, dalla carriera da intraprendere alla donna da sposare. La vita della famiglia, a Siracusa, scorre sui binari imposti dal capofamiglia. Marco, però, a 21 anni matura una consapevolezza: è omosessuale. «Sono cresciuto in una famiglia nella quale se si parlava dell’argomento si facevano battute, anche pesanti – racconta – Mi dicevo: non mi dichiarerò mai».
Ero nel dubbio se dichiararmi a lui. Non sapevo nemmeno come dirglielo
Passa il tempo e il giovane cerca la sua indipendenza economica, lavorando nei locali della città aretusea come barista o cameriere. «Ero…». Marco esita nel cercare le parole per descrivere quel periodo. «Ero nel dubbio se dichiararmi a lui. Non sapevo nemmeno come dirglielo». Ma il suo coming out avviene attraverso le chiacchiere di paese. «In quel momento non mi ha picchiato, non ha avuto una reazione violenta: ha avuto un malore. Sono il suo unico figlio maschio e per lui è stato un colpo».
In un primo momento le cose sembrano andare piuttosto bene. «All’inizio sembrava averla accettata, ma sentiva quello che dicevano le persone e se la prendeva». La misura per l’uomo diventa colma quando le solite voci insinuano che Marco frequenti brutti ambienti e si prostituisca. E questa volta il genitore reagisce con la violenza. «Mi ha picchiato non perché fossi gay, ma per le dicerie della gente. Dicevano che andavo in brutti posti. La mentalità delle vecchie generazioni – chiarisce Marco – è che l’omosessuale è quello che va per strada a prostituirsi».
Mi ha picchiato non perché fossi gay, ma per le dicerie della gente
«È stata dura, perché mi ha disprezzato come figlio». Il filo esile che lega i due si spezza per sempre, e anche il rapporto tra i genitori non funziona più, tanto da portare alla separazione. Un iter giudiziario che coinvolge in prima persona anche Marco. «Ha raccontato al giudice che il divorzio dipende al 70 per cento dal fatto che ha un figlio omosessuale – afferma con amarezza il giovane – come se fosse colpa di mia mamma», sbotta. Nonostante tutto, la coppia cerca una riconciliazione che però non ha lunga vita. «Dopo la separazione è tornato a casa, ma la riappacificazione è durata pochissimo».
A determinare la rottura definitiva è la scelta di Marco di impegnarsi attivamente nel circolo locale di Arcigay e di iniziare a lavorare per l’associazione.«Arcigay ha fatto veramente tanto per me in questi due anni». Le parole di Marco scorrono velocemente quando parla della collaborazione con l’ente. Sono tanti i progetti che aiuta a curare: dall’organizzazione del primo Pride nella città alle attività con le scuole. «Abbiamo ricevuto tante risposte positive al nostro impegno. Tutto quello che abbiamo fatto, mi dà molte soddisfazioni». Arcigay è diventata per lui una seconda famiglia. «Per uno che ha fatto un coming out così, affrontando tante difficoltà, è bello vedere i frutti del proprio lavoro».
Marco, che oggi ha 27 anni, rivede negli occhi dei giovani che incontra quotidianamente le stesse emozioni in balia delle quali si trovava fino a pochi anni fa. Una storia finita bene, la sua come quella di Davide. «Prendere consapevolezza di sé è molto dura e se non c’è nessuno che ti aiuta puoi imboccare strade sbagliate – riflette – Ci sono ragazzi e ragazze che prendono queste cose sotto gamba. Ma è un danno psicologico che si portano dietro». Da qui nasce il suo impegno come volontario: «Così come sono stato aiutato, adesso aiuto gli altri». Cosa sarebbe successo se nella sua vita non avesse incrociato l’associazione, se non si fosse dichiarato ad amici e parenti? «Sarei crollato emotivamente e non avrei riconosciuto me stesso», afferma con sicurezza. E avverte: «Si deve raggiungere la giusta consapevolezza: non è una questione di moda dirlo o tacere. Si ci deve pensare, raggiungere la giusta maturità».
Da sei anni la vita di Marco non corre più su quei binari imposti dal padre. «A me non piace prendere in giro chi mi ama. Mi nascondevo, era come tenere un segreto. Ora sono felice», ammette con semplicità. Non ha mai avuto problemi di discriminazione e con la madre e la famiglia – soprattutto quella materna – il legame è saldo: «Mi amano quanto mi amavano prima». E con il padre? «In fondo credo che mi voglia bene, ma non esiste più un rapporto tra noi; ha cercato di riprenderlo, ma è ricaduto sempre negli stessi errori». A far star male il giovane, ancora oggi, è la contraddizione alla base dell’educazione che il genitore gli ha fornito. «Lui mi ha sempre insegnato il rispetto: dal mangiare a tavola al rapporto con gli altri. Ha sempre cercato di mantenermi sulla retta via. Ma non ha rispetto di me e questo mi ferisce».