Un percorso musicale articolato, che attraversa la parte in dialetto siciliano della produzione di uno dei più grandi cantautori italiani. Da La donna riccia ad Vecchio frack riscritta in dialetto, passando per Cavaddu cecu de la minera e Amara terra mia. Il tutto senza escludere il brano che dà il titolo allo spettacolo e che, col suo dialogo tra un contadino e Cristo in croce, ha superato incolume anche la censura del 1861
Malarazza, concerto evento al Platamone Modugno secondo Incudine, Kaballà e Canto
«La leggenda racconta che fu Frank Sinatra a consigliare a Domenico Modugno di fingersi isolano. Si dice che lo abbia sentito cantare una canzone in dialetto salentino, che è molto simile al siciliano, e poi gli abbia chiesto da dove venisse quel pezzo. Quando Modugno gli rispose che era pugliese, Sinatra gli disse: “Sì, ma la Sicilia è più riconoscibile, canta in quel dialetto lì”». A quel punto sarebbe iniziata una parte del percorso artistico e linguistico di Domenico Modugno, prima del successo di Volare, quella che lo avrebbe portato a scrivere tra le altre Malarazza. Ed è proprio da questo brano, in cui un contadino si rivolge al crocifisso in una chiesa e gli chiede di proteggerlo dalla malarazza dei padroni sfruttatori, che prende il titolo il concerto evento che martedì 22 luglio, alle 21, si terrà al cortile Platamone. Malarazza, omaggio alla Sicilia di Domenico Modugno, è un progetto di Mario Incudine, Kaballà e Tony Canto che, dopo aver girato l’Italia, arriva per la prima volta a Catania: «Finalmente nel posto giusto», sorride Incudine.
Tre artisti siciliani, tutti e tre noti per le loro scelte artistiche che li hanno portati a esplorare le possibilità della musica fatta in dialetto: «Kaballà, per esempio, è un uomo straordinario racconta Mario Incudine, finalista al premio Tenco nel 2012 Mentre nello studio 1 Fabrizio De André registrava Crêuza de mä, nello studio 2 lui incideva, con gli stessi musicisti di supporto, Petra lavica. Aveva capito, insomma, assieme a un genio assoluto della canzone d’autore italiana, che raccontare la propria terra è un modo per essere universali». La stessa cosa l’aveva fatta agli inizi della sua carriera Domenico Modugno, usando il siciliano per «cantare in Francia, in America, in Russia, emozionando in ogni singola tappa. Questa per noi è scuola».
Il concerto, organizzato dal Teatro stabile di Catania in collaborazione col Comune etneo, «racconta il percorso artistico del grande cantautore, da quando è partito dalla Puglia con la sua valigia per andare a studiare al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, perché lui all’inizio voleva fare l’attore, poi la storia è andata in modo diverso». Uno spettacolo che, di canzone in canzone, dipana la matassa della musica di Modugno, arrivando fino al 1954, anno in cui viene incisa Vecchio frack, «che viene considerata la prima canzone d’autore italiana». «Noi l’abbiamo tradotta in siciliano precisa Incudine e l’abbiamo adattata alla nostra terra. Nella prima strofa, cantiamo “S’astutau l’ultima luci do’ Sicilia Gran Cafè“». Una vera e propria riscrittura che, probabilmente, farà parte di un progetto discografico futuro dei tre artisti.
«Le anime di Domenico Modugno sono variegate e molteplici, noi abbiamo scelto ciascuno quella che ci calzasse meglio e l’abbiamo fatta nostra, ma con una base così ricca non era nemmeno difficile». Secondo il cantautore ennese, non c’è genere che Modugno non abbia esplorato, non c’è stile che non abbia anticipato: «Vendemmia giorno e notte mixa canzone popolare, canzone d’autore e psichedelia; Rinaldo in campo, che poteva vantare gli arrangiamenti del giovane Ennio Morricone, anticipa il folk revival; Cavaddu cecu de la minera racconta il lavoro che ti prende tutto e poi ti lascia senza speranza; Amara terra mia potrebbe essere l’inno dei nuovi migranti; La donna riccia è già jazz cantautorale con influenze sudamericane». Malinconia, amore, passione, tristezza, allegria. Ma anche politica e impegno, come in Malarazza, che dà il titolo allo spettacolo di martedì sera: «È una canzone popolare che nel 1861 venne censurata perché non era possibile che Cristo dalla croce parlasse a un contadino afferma Incudine Dobbiamo essergli grati per averla recuperata, per la poesia di quel “Si tu sì ‘n’omu e nun sì testa pazza, ascolta bena ‘sta sintenzia mia, ca’ iu ‘nchiudatu in cruce nun saria su avissa fattu ciò ca’ ricu a ttia“».