Mafia, retata contro il clan Santapaola «Decisivo l’aiuto di 18 imprenditori»

Alcuni ancora in libertà. Altri già in carcere dove, con l’aiuto dell’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Seminara, avevano libero accesso a telefoni cellulari ma anche a champagne e caponata. Sono i settantasette arrestati questa mattina dai Carabinieri di Catania, tutti uomini ritenuti dai magistrati affiliati al clan Santapaola.

Una sfilza di nomi, trentaquattro di soggetti già reclusi per altri reati, fermati questa volta nell’ambito dell’operazione Fiori bianchi, coordinata dalla Procura e dalla Direzione distrettuale antimafia etnea e che ha impiegato circa trecento uomini delle forze dell’ordine. Gli arrestati riscuotevano il pizzo da 20 esercizi commerciali di Catania e provincia e sono accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso a vario titolo, intestazione fittizia di beniestorsione e spaccio di sostanze stupefacenti. «Un’operazione vasta e significativa per Catania – dichiara il procuratore capo etneo Giovanni Salvi – Il numero delle estorsioni indica che sono ancora molto più diffuse di quanto pensiamo. Ma il dato positivo è la collaborazione degli imprenditori. Diciotto su venti hanno contribuito con grande precisione a individuare gli estorsori. Solo due hanno negato il loro supporto e nei loro confronti si procederà per false dichiarazioni all’autorità giudiziaria».

Fondamentali poi per gli inquirenti i racconti dell’ex boss Santo La Causa, oggi collaboratore di giustizia. Grazie alle dichiarazioni, appena venti giorni fa sono state arrestate sette persone ritenute responsabili di quattro omicidi commessi a Catania nel 1995, nel 1999 e nel 2000. Testimonianze supportate anche dai racconti di altri due neo pentiti: i fratelli Paolo e Giuseppe Mirabile.

Il risultato di indagini lunghe, iniziate due anni fa, e che oggi hanno portato ad un sostanziale smembramento del clan, privato dei soggetti considerati di spicco all’interno della famiglia. «Gli arrestati sono i capigruppo operativi in vari centri della città, (con i quartieri Monte PoVillaggio Sant’AgataLineriPicanello, stazione, San CristoforoSan Giovanni GalermoLibrinoCivita e Cibali) e della provincia» (PaternòBelpassoMascalucia, Santa VenerinaAcirealeFiumefreddo e Riposto), spiega il procuratore  Carmelo Zuccaro, coordinatore delle indagini insieme ai colleghi Giuseppe Gennaro e Agata Santonocito.
«Si tratta una ricerca lunga, nata dalla necessità di verificare a che punto fosse lo stato dell’arte di certi soggetti già arrestati in passato e condannati più volte per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa», spiega il procuratore Gennaro. «E che usciti dal carcere, come testimoniano le verbalizzazioni dei loro movimenti in città, avevano ripreso a frequentare determinate conoscenze, riprendendo l’attività malavitosa che avevano lasciato al momento dell’arresto», continua. «Queste indagini ne testimoniano la carriera criminale che, in certi casi, è progredita. Molti di loro sono avanzati di grado anche durante gli anni di detenzione. E hanno fatto valere il loro potere non appena riacquistata la libertà».

Tra questi anche nomi considerati importanti, come il capo storico del gruppo del Villaggio Sant’Agata, Santo Battaglia. Ergastolano ma che, secondo i pentiti, non avrebbe mai smesso di coordinare le attività del clan anche dal carcere, percependo uno stipendio mensile da 1.500 euro. Ma anche Natale Armando Angemi (per il quartiere Civita), Mirko Pompeo Cesesa (reggente a Mascalucia e Nicolosi), Antonino Castorina (Santa Venerina e Zafferana Etnea), Salvatore Fazio(per Cibali), Benedetto La Motta (responsabile di Riposto), Angelo Mirabile (reggente per il Villaggio Sant’Agata), Andrea Luca Nizza (Librino), Antonino Patanè (Acicatena), Sebastiano Patanè (Fiumefreddo di Sicilia), Lorenzo Pavone (Picanello) e Giuseppe Santonocito(Belpasso e San Pietro Clarenza).

Altri nomi di spicco sono Francesco Ferrera – figlio del defunto Natale, detto Cavadduzzu – che tentò di ricostituire un gruppetto di persone a lui fedeli, con la mediazione del cugino Francesco Napoli, ma senza essere riconosciuto come il capo. Assicurandosi così la copertura necessaria. E poi Giorgio Cannizzaro, arrestato a Roma e ritenuto l’agente di collegamento tra la famiglia siciliana, i grossi imprenditori e la camorra. «Una figura ambigua», considerato «cerniera» tra la mafia e i poteri forti cittadini. «Da una parte inserito in rapporti personali con il clero, di Catania e non solo, dall’altro legato a Cosa Nostra», spiega Salvi. Rapporti su cui la procura preferisce non rendere noti ulteriori dettagli. «Si tratta di contatti che, al momento, non è detto che siano illeciti», si limita a chiarire il procuratore capo.


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