Mafia, cresciuto il potere delle famiglie trapanesi  «Legami in società civile, imprenditoria e politica»

«È da rilevare che le consorterie trapanesi sembrano aver aumentato la propria influenza nel Palermitano e, in genere, nella complessiva governance dell’organizzazione criminale». È questo uno dei passaggi messi in evidenza dalla Direzione investigativa antimafia, nell’ultima relazione trasmessa al ministero degli Interni. Un documento che analizza le direttrici che segue la mafia in Sicilia e che fa riferimento alle attività svolte nel primo semestre 2016. Il cuore del business di Cosa nostra e delle altre associazioni criminali presenti sul territorio sono le emergenze. Da sfruttare e da creare. In quasi 50 pagine, provincia per provincia, vengono elencati i principali avvenimenti accaduti e tratteggiati gli equilibri di famiglie e clan. Che da una parte all’altra dell’Isola sembrano confermare la volontà di proseguire nell’inabissamento già messo in evidenza negli scorsi anni e che per gli investigatori «non è da intendersi come depotenziamento, quanto piuttosto una scelta strategica» capace di adeguarsi ai mutamenti sociali. 

Una mafia capace di adottare «strategie di mercato» e specializzarsi «nel controllo e nella fornitura di beni e servizi», senza mettere da parte i tradizionali metodi di controllo del territorio. Ed è in questo contesto che entrano in gioco le emergenze. «La mafia siciliana sfrutta persegue situazioni emergenziali, determinate da disfunzioni di sistema, come nel caso della gestione del ciclo dei rifiuti, in alcuni casi creandone ad arte i presupposti». In tal senso, la Dia elenca i settori dove presto Cosa nostra potrebbe affondare le mani, più di quanto già oggi non faccia. «Questo modus operandi potrebbe essere esportato nel settore dell’assistenza sanitaria, dell’accoglienza dei profughi, dello sfruttamento delle risorse energetiche, delle cooperative, nonché del risanamento idrogeologico e della costruzione di opere». 

In tal senso, una delle province più attive è senza dubbio quella trapanese. È proprio qui, d’altronde, che ha le radici colui che è ritenuto il capo di Cosa nostraMatteo Messina Denaro. Del padrino di Castelvetrano, però, nell’intero documento non si fa mai menzione. Per lui, gli investigatori utilizzano diverse perifrasi, con la più ricorrente con cui viene definito «noto latitante». Che però il Trapanese, grazie alle caratteristiche di «coesione e impermeabilità», abbia accresciuto la propria importanza lo dice la stessa Dia. A ciò contribuirebbe anche «il processo di revisione interna protesa all’individuazione di una leadership alternativa a quella storica corleonese, ora in declino anche per ragioni anagrafiche e di salute dei rappresentanti più autorevoli». 

Nonostante non sia certo che Messina Denaro si trovi ancora in provincia, il peso della primula rossa di Cosa nostra si sarebbe fatta sentire. «Attorno a quest’ultimo, gli affiliati avrebbero maturato un forte senso di appartenenza, sostenuto anche da legami con ambienti della società civile, della borghesia, dell’imprenditoria e della politica locale». Reciproche influenze che, ricordano gli investigatori, sarebbero sconfinate anche nella contaminazione di quelle parti di società che solitamente si considerano sane. «Si pensi al caso di un imprenditore (Vincenzo Artale, ndr), il quale, sfruttando la sua adesione ad un’associazione antiracket di Alcamo, avrebbe agevolato le attività illecite di un altro imprenditore edile reggente della cosca locale», sottolinea la Dia. 

Nel Trapanese, il business della mafia – oltre che nel settore edile, con infiltrazioni nel sistema dei subappalti – ruota attorno alle sostanze stupefacenti, con diverse coltivazioni di cannabis. A riguardo, gli investigatori ricordano l’omicidio del maresciallo Silvio Mirachiucciso a Marsala durante un servizio di appostamento nei pressi di una serra.  


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