Le udienze al processo di Bicocca, le assemblee con gli studenti, i sorrisi di un pomeriggio con i ragazzi dei Siciliani. Fotogrammi dalla vita di una donna cui non piaceva la parola «vittima»
L’ostinazione semplice di Elena Fava Se la memoria viaggia verso il futuro
Elena tiene in mano un microfono, e intorno a lei i ragazzi stanno facendo casino, come succede sempre quando comincia un’assemblea: e già si sa che, prima o poi, bisognerà sgridare quelli delle ultime file, perché almeno bisogna avere rispetto per l’ospite, per l’esperto che è venuto a sfidare la loro distrazione parlando di cose serie e lontane come la mafia. Solo che Elena non è un’esperta, per tutta la vita ha fatto la dottoressa al Garibaldi – la dottoressa del sangue, la chiamavano –; e soprattutto non ha bisogno di imporre il silenzio agli studenti perché, adesso che ha cominciato a parlare, il silenzio si è fatto da solo. E all’improvviso la storia di Giuseppe Fava non è più una cosa lontana, ha smesso di essere la cronaca di anni in cui nessuno di quei ragazzi era ancora nato, e ora non è più possibile separarla dalla voce di Elena, dalle parole su cui la sua memoria viaggia verso una destinazione sicura.
Oppure, Elena esce dalla cucina di casa sua e tiene in mano una delle sue torte. Ma non è che siamo lì per festeggiare qualcosa: è solo un modo diverso di stare insieme, per un pomeriggio: visto che, durante la settimana, di tempo insieme ne passiamo anche troppo. Solo che in genere lo passiamo a Bicocca, nell’aula bunker dove si celebra il processo per l’omicidio di Giuseppe Fava. Ed Elena, che non ne perde un’udienza, è sempre in mezzo a noi, giovani – allora – redattori dei Siciliani, a incrociare le sue memorie di figlia con le nostre certezze di cronisti. E a scrutare, con occhi così diversi e così simili ai nostri, il volto sfrontato e complice della città che ha mandato a morire Giuseppe Fava. E che è ancora lì, intatta, impudica, a ripetere i riti e i silenzi del suo potere, mentre la giustizia la chiama in aula a ricostruire moventi e circostanze del delitto.
O, invece, Elena tiene in mano uno scatolone di libri e li rovescia su una scrivania: per regalare ai ragazzi di un giornale universitario qualche frammento della storia di Fava. Una storia senza la quale, certamente, loro non sarebbero lì, a inventare un modo nuovo per raccontare la loro città, a costruire ostinatamente un altro pezzo di verità e di memoria. Una storia che lei, in pubblico, preferisce sempre raccontare chiamando suo padre per nome e cognome: Giuseppe Fava. Per non chiuderla nel recinto privato del dolore. Per poterla dividere con chi non lo ha conosciuto.
Quest’altr’anno, però, Elena non potrà tenere in mano il mazzo di fiori da deporre nel luogo in cui è stato ucciso Giuseppe Fava, nella via che ora porta il suo nome. Non sarà lei a metterlo lì, sapendo che magari anche stavolta qualcuno li toglierà, che sarà necessario portarceli di nuovo. Quest’anno non ci sarà Elena, con la sua bellezza fiera, con la sua ostinazione semplice che ci ha accompagnati nei trentadue anni che sono passati dal 5 gennaio 1984. Non la vedremo davanti alla lapide. Una lapide che fu messa lì dagli studenti, un anno dopo il delitto, quando ufficialmente la città continuava a negare che a Catania ci fosse la mafia e che quello fosse un omicidio di mafia. Una lapide che, quando trentun anni fa gli studenti la attaccarono lì, era fatta di cartone. E che ora è scolpita sulla pietra. Anche grazie a Elena.