L’operaio con la chitarra (e una moglie Sioux)

Fabrzio Varchetta è un operaio e un cantautore. Ma ancora prima è un uomo, una persona rimasta profondamente colpita dalla tragedia della ThyssenKrupp. In quella fabbrica torinese morirono sette dipendenti divenuti simbolo di un’Italia nella quale si muore per lavorare. Per raccontare “l’acqua buona di una terra amara” è nato un progetto musicale – “Siamo gli operai” – «Alla faccia di chi dice che un futuro non c’è».

Chi è Fabrizio Varchetta?
«Fabrizio lo conosco da quarant’anni: è uno che, se si potesse ricavare energia elettrica dal numero di idee che malsanamente lo aggrediscono, finirebbe di pagare la bolletta della luce. Abita qui da me, lo vedi alzarsi alle sei, si infila la tuta da lavoro e via in officina. Generalmente non torna a casa a pranzo, a volte va a prendere sua figlia a scuola, arriva a casa, gioca un po’ con la bambina».

E la sera?

«Si attacca al computer e al telefono per cercare date, arrangiare pezzi, scrivere… A volte lo vedi sparire per due o tre giorni, vuol dire che è andato a suonare o sta registrando da qualche parte. Una volta faceva solo quello, ma adesso, con i tempi che corrono, chi se lo può permettere?».
                           
E poi?
«E poi… non so se posso dirlo, ma a volte, soprattutto ultimamente, lo vedo aggirarsi la notte con uno strano registratorino in mano e canticchiare a bassa voce dentro a questo aggeggio. Una volta si è addormentato in bagno, l’altra mattina ha messo le ciabatte in frigo. Insomma… preoccupa».

Tu non “nasci” come cantante vero e proprio ma come autore.
«Ho sempre trovato la mia voce un po’ insignificante e per questo ho lasciato che fossero altri a cantare i miei pezzi (Nomadi, Bassapadana, ndr). Mi sono trovato, sei anni fa, con la faccia a fissare punti astratti di un soffitto d’ospedale, la mano sinistra quasi inutilizzabile. Ho passato momenti nei quali mi sono promesso che, semmai fossi riuscito a tornare a suonare, mi sarei preso l’impegno in prima persona di portare avanti le mie canzoni. A suonare ci sono tornato, non come prima, ma un anno e mezzo fa eccomi fortunatamente in studio con alcuni amici a registrare quei pezzi che mi pareva avessero un significato in quel momento».

Da cosa è nato il bisogno di incidere l’album “Siamo gli operai”? Quale percorso segue un cd del genere?
«La mattina del 7 dicembre apprendo della tragedia della Thyssen e mi colpisce l’atteggiamento dei miei colleghi al lavoro, di completo disinteresse. In quel momento ha iniziato a ronzarmi in testa l’idea di fare qualcosa e dopo due mesi è nata Siamo gli Operai. Ho chiamato altri amici (Modena City Ramblers, Gang, Statuto, Elisa Minari, Flaco Biondini, Daniela Galli, Popinga, Gigi Cavalli Cocchi) ed ho esposto loro l’idea di farne un brano che avesse un’utilità sociale attiva oltre che musicale. Siamo andati a registrare e il quotidiano l’Unità lo ha messo sul suo sito scaricabile a offerta libera e devoluto gli incassi alle famiglie di Torino».

Ti sembrava sufficiente quanto avevi fatto?
«Non mi bastava, si doveva fare di più. Quindi di nuovo in studio, di nuovo altri pezzi da aggiungere. Ad aprile avevo materiale registrato per stampare un doppio cd. Bene, mi sono detto, ma poi che ci faccio? Mi metto a nutrire speranze discografiche a quarant’anni? Visto il lavoro fatto, mi dispiaceva tenerlo nel cassetto. E poi c’era Siamo gli Operai, che farne?».

Qual è stata la reazione dei “professionisti” della musica?
«Tento due telefonate a discografici e rinuncio a percorrere quella strada, sembra di parlare con dei sordi: alle parole “devolvere i proventi” rispondono emettendo suoni gutturali. Uno di loro mi dice: “Ma perché non fai quelle iniziative con gli sms a un euro?”».

E quindi?
«Arriva il conto dello studio di registrazione e pago con un anticipo di liquidazione. Mia moglie scende sul piede di guerra, si unisce definitivamente a una tribù Sioux e inizia a compiere azioni di guerriglia domestica. Mi trovo con un lavoro finito, decente, ma senza sbocchi. Decido di andare avanti a testa bassa, trovo un’etichetta che non ci mette un soldo ma mi garantisce una piccola distribuzione, tiro un forte sospiro, affronto i Sioux sul Little Bighorn, capitolo ma stampo. Accantono però l’idea del doppio cd escludendo parte del lavoro in modo da contenere le spese».

La soluzione definitiva è arrivata qualche mese fa…
«Parlando con la Camera del Lavoro di Reggio Emilia e Arci di Reggio spiego loro le mie intenzioni e questi ci mettono una piccola parte delle spese. I Sioux a quel punto iniziano a parlamentare. Vado a Torino a parlare dell’iniziativa con Giovanni Pignalosa (uno degli operai scampati all’incendio, NdR). E’ il 6 dicembre del 2008: di fronte allo scheletro vuoto della Thyssen, in una manifestazione senza cappelli politici, guardo negli occhi i parenti di quei poveri ragazzi. Non so spiegare quello che mi si è mosso dentro, ma al ritorno capisco che ho fatto qualcosa di buono e che quei puntini contati sul soffitto d’ospedale si sono uniti finalmente in un sorriso».

E i Sioux?
«Per ora cacciano il bisonte, poi si vedrà».
   
Cosa ha portato quella notte di dicembre?
«Seriamente parlando, quella parentesi di orrore non si è ancora chiusa. Certo ha scosso molta gente, da quel momento le morti bianche si sono rivelate agli occhi dell’opinione pubblica non così candide come si vuol far credere. Sono stati fatti film e documentari, il carrozzone dello show business ha lambito quelle pelli bruciate ma si è fortunatamente fermato alla rappresentazione di denuncia, per ora. E’ diventata la madre di tutte le tragedie sul lavoro. La Thyssen ha chiuso a Torino, la siderurgia in quel distretto non c’è più, è rimasta la disoccupazione, il vuoto, sia nelle fabbriche che dentro alle coscienze. Ed è in questo vuoto che va cercata secondo me la chiave per capire cosa c’è da fare».

Cosa si è fatto dopo la tragedia di Torino e cosa invece c’è da fare?
«I sindacati si sono mossi, in molti hanno fatto la voce grossa, tanti bei blablabla che hanno partorito a volte anche cose utili come nel caso dell’assistenza legale alle famiglie. Ma nulla per colmare quel vuoto interiore che oggi vanifica ogni iniziativa, ogni pulsione. Ciò che serve a mio avviso è una riforma culturale di questo sistema. Dobbiamo tornare a guardarci incuriositi i difetti quotidiani anziché pavoneggiarci nei fine settimana stanchi e logori. E recuperare quell’orgoglio e la coscienza che gli operai sono le fondamenta di ogni sistema e senza di noi il tutto crolla».

Nel cd sembra quasi esserci un percorso che da Torino (Siamo gli operai) arriva a Venezia (Nordest). Quali storie racconti in quelle strade?
«E’ infatti così, o quasi. Togliendo, aggiungendo canzoni mi sono trovato a rappresentare un percorso personale e geografico che tocca molte parti di questo mondo. Parto quindi dal mio paese, Cavriago, vicino a Reggio Emilia, per toccare Torino con Siamo gli Operai, volare nel Cile di oggi con Lucia dove parlo del ritorno di un’esiliata. Sotto questa traccia c’è la voce del presidente Allende nel suo ultimo discorso dalla Moneda che sta a rappresentare il passato, secondo me pronto a tornare. Si parla di una storia d’amore tra due donne in Paola e Francesca, dell’avventura di un migrante in Rashid, della “nuova” povertà in Sonia».

Ma non ci sono solo storie di altri.
«Accanto a questi brani ci sono anche situazioni personali, ricordi. Andiamo ad esempio alla periferia di Parigi per Milonga pour Elle con gli arrangiamenti e i suoni di Flaco Biondini (chitarrista e compositore di Francesco Guccini), canzoni di “rappresentazione del reale” come Facciamo i Nomi Parte II e Garibaldi sulla Luna. Per finire con una ballata acustica dove si racconta di Porto Marghera. E non poteva mancare la canzone di Nino il Marzianino che ha per ospiti Massimo, Franco, Dudu, Robby dei Modena City Ramblers dove si racconta le disavventure qui sulla Terra di un curioso extraterrestre».

Cosa penserebbe “Nino il Marzianino” dell’Italia di oggi?
«Traduco la risposta dalla lingua di Godo, il suo pianeta. Lui in realtà si chiama Marialberto Camuffoni, viene da Molto, la capitale. “Cosa dirti, caro sfigato terrestre? Come puoi vivere in un mondo in cui la conoscenza è sussidiaria al profitto, la politica anziché al servizio del popolo è al servizio di se stessa e arrotola pacchi di quattrini trasformandoli in fumo? Come ti rapporti con la gente se non ti puoi fidare o se hai paura a fidarti? Come riesci a studiare se sai già che non ti darà da vivere? Come riesci ad avere figli se sai già che non avrai mezzi sufficienti per aiutarli? Perché lavori se sai che con esso stai distruggendo il tuo stesso mondo? Della brutta avventura che mi è capitata ho solo un bel ricordo: quel cielo stellato, che tra poco sarà oscurato da un velo grigio fumo”».

Quali sono i progetti futuri?       
«In ordine sparso: spegnere per sempre il televisore (tanto non c’è un ca…volo e a mia figlia fa malissimo), suonare e portare in giro Siamo gli Operai con i Witko, gruppo formato da Massimo Dema De Matteis, Greta Fornasari, Dario Caradente, Elisa Giordanella e Alessandro Stocchi, versare il ricavato della vendita dei cd ai fondi per le famiglie degli operai morti sul lavoro, registrare Testimone di Giustizia sempre con i Witko, registrare sempre con loro un disco ma dal vivo con le nuove canzoni che stiamo provando, venire a suonare in Sicilia, tenermi il posto di lavoro. In caso si metta male… trasferirmi in Sicilia dove sto trovando persone veramente interessanti».

Parlaci di Testimoni di Giustizia.
«Una domenica pomeriggio d’estate ero da solo in officina ed ascoltavo la radio. Facevano un programma sulle donne di mafia, leggendo libri e recitando in un siciliano da cliché. Ad un certo punto si mettono a parlare di Rita Atria e mi salta alla mente di averne già sentito parlare, un po’ di anni fa. Vado a casa, faccio le mie ricerche, mi studio il sito dell’Associazione e scrivo, almeno abbozzo. Mi pareva indelicato scrivere di una persona che non c’è più senza chiederne il permesso. Mi metto quindi in contatto con l’Associazione via mail e mi rispondono che sì, posso. Da lì è nata un’amicizia con tre belle persone, Nadia Furnari, Vincenza Scuderi e Piera Aiello che – sebbene non abbia mai visto di persona – posso annoverare come una tra le più importanti e leali della mia vita».

Detto, fatto!
«Vado in ferie e finisco il testo. Con rocambolesca manovra di attacco, frego il posto a un teutonico yankee all’internet point di San Mauro e spedisco la cosa. Torno a casa e registro una demo che mando all’Associazione. La demo è agghiacciante nell’esecuzione ma piace molto. Tra poche settimane l’andrò a registrare assieme ai Witko e con la bellissima voce di Greta Fornasari, poi si vedrà. Ho cercato di parlare di Rita Atria e Piera Aiello mettendo in metrica per quanto possibile le parole di Rita, che credo colme di speranza e sincere come lo si può essere solo a quell’età: C’è un altro mondo a due passi dal buio/ e non è mai tardi per dirgli di sì».

 

Il sito ufficiale di Fabrzio Varchetta 

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