Lombardo facile per i terùn

Alberto da Giussano ignaro di svolazzare tra le bandiere di migliaia di Longobardi sedicenti dotati, superdotati, dagli attributi di ferro, non se lo sarebbe mai aspettato che i “suoi” padani potessero mangiare i dolciumi portati su dall’Africa italiana. Ma lui, Alberto, è morto da quasi mille anni e molto è cambiato da allora. Il suo antico orgoglio di condottiero sarebbe stato ferito, e certo non avrebbe voluto trovarsi ad abbronzarsi nella bandiera di un vicesindaco di Lampedusa, l’isola più a Sud d’Italia (e d’Europa), l’isola delle tartarughe e dei mori che naufragano in massa.

E probabilmente avrebbe da ridire sui suoi nipoti alla lontanissima imborghesiti di brutto, mischiati coi terùn, a braccetto con quei ladroni dei romani, votati dagli operai comunisti, con tre ministeri, sessanta deputati ed una ventina di senatori bardati delle effige di un’Italia che Alberto ignorava e che avrebbe schifato innamorato com’era solo del Carroccio. E non bastano i comizi dove si ruggiscono i maestosi slogan: “Ce l’ho duro”, “Padania is not Italy”, “federalismo subito”, “il Presidente della Repubblica è un bamba”, “abbiamo un sogno nel cuore, bruciare il tricolore” ecc. ecc. Ci vuole ben altro perché la silhouette del vecchio Alberto, con la spada puntata verso il cielo e lo scudo stretto in mano, possa tornare ad esser fiera dei colonnelli in verde.

Ce lo immaginiamo così, dunque, da Giussano: come spirituale osservatore dell’odierna Lega di governo. Fortissima di otto punti di percentuale ed abbracciata all’altro emblematico movimento autonomista: quello del Lombardo che però è di Grammichele. Una specie di capopopolo. Quello del Ponte. Fiero della granita alla mandorla in barba all’amico Totò «costretto» a un’insapore grattachecca. Il Lombardo siculo (un gioco di parole sensazionale) sembra davvero crederci alle rivendicazioni localistiche del suo Mpa. Proprio la settimana scorsa ha alzato la voce contro l’effetto domino della fine dell’Ici che, in buona sostanza, è il bizzarro “rubo ai ricchi per dare ai poveri” di uno strano Robin Hood (altra immagine stupenda se lo si immagina basso, col doppiopetto verde ed arco più freccia). E poi ha chiesto che nelle scuole si insegni il dialetto siciliano, anzi la lingua, di Antonello da Messina.

A questo punto Alberto da Giussano si sarebbe fatto una risata così grossa da far tintinnare l’armatura. Ma poi, terminata l’iniziale ilarità, sarebbe comparso in sogno a Bossi, suggerendo di istituire un “Curs de Lumbard per Terùn” nelle università dell’Africa italiana così, per insegnare qualcosina di utile a quei zurùch (zoticoni) e soprattutto a quelli “vegnì giò cunt la piena” (venuti con la piena, i tamarri trasferitisi a Milano dal sud). Perché il lumbard è la lingua del lavoro, è rapida, efficace, veloce, immediata. Molto più pragmatica dell’inglese e del francese. C’è anche un manuale edito da Mondadori a proposito. Il primo capitolo sarebbe dedicato a parole chiave come “el lavùr” (il lavoro), “paga i tass” (paga le tasse), “balandràn” (fannullone), “baùba” (africano), “barbün” (barbone, morto di fame), “berlüsca” (Berlusconi), “cartasüga” (ubriacone), “danèe” (soldi), “dür” (duro), “fermenta” (Marco Formentini), “gnücc” (duro di comprendonio), “ciula” (incapace), “cassuela” (piatto lombardo a base di verze).

Alberto da Giussano ora se ne torna in branda, stanotte andrà dal Senatùr.
Finalmente Nord e Sud sono d’accordo su qualcosa. Una specie di interfacoltà.

Ascolta la prima lezione del “corso”

Riccardo Marra

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