Lo Stato con il cappio al collo

C’è un paese in Europa che sta soffocando. C’è una regione ancora troppo colpevole che, omertosamente, accetta il giogo della signora tra le organizzazioni criminali. La Sicilia e la mafia, la Sicilia e il pizzo, la Sicilia e la paura: temi discussi venerdì 13 nell’aula magna della facoltà di Scienze politiche, affrontati e ampiamente documentati da Enrico Bellavia e Maurizio de Lucia, giornalista e magistrato palermitani e autori del libro “Il Cappio. Pizzo e tangenti strangolano la Sicilia”. Un volume che ha richiesto un anno di lavoro e che parte e parla di storie e processi di mafia nel contesto palermitano. Bellavia accenna alla situazione catanese con poche ma esplicative parole: «Non si tratta di essere ottimisti o pessimisti nei confronti della lotta al racket, bisogna essere realisti. E realisticamente Catania è un passo indietro rispetto a Palermo a livello di denunce, sono troppo poche le ribellioni». In una città dove la mafia si sostituisce allo Stato, il pizzo non viene visto come un sopruso che lede la dignità del cittadino, ma un patto che implica uno scambio: è fin troppo facile usufruire delle conoscenze del mafioso di turno per farsi eliminare la concorrenza. Lo Stato non è percepito vicino al cittadino, quindi tanto vale pagare duecento euro e non avere problemi, anzi, ottenere favori. «La nuova mafia chiede poco, ma a tutti», sostiene Renato Camarda, uno degli avvocati dell’associazione antiracket “Libero Grassi”, intervenuto all’incontro.

Tema principale del libro è vedere la mafia come un fattore di sottosviluppo in Sicilia, dato difficilmente opinabile quando, cifre alla mano, si scopre che il 90% dei maxi processi per estorsione non è partito dalle denunce dei singoli, ma dai pentiti e dai libri mastri delle aziende. Bellavia afferma che «il pizzo è solo in minima parte un provente per la mafia. Serve principalmente a presidiare il territorio. I commercianti corrono a “mettersi a posto” con il pagamento del pizzo senza avere la forza e il coraggio di alzare la testa». E, continua Maurizio De Lucia, «sta qui la differenza tra l’associazione mafiosa e la semplice banda: nel controllo capillare del territorio». Entrambi gli autori concordano nel sostenere la lotta all’estorsione come una prerogativa politica e sociale: «Compito dei magistrati è fermare l’associazione mafiosa, ma compito della politica e della società è riempire i vuoti che la mafia lascia», approfondisce De Lucia.

Viene da chiedersi dove sia lo stato quando i titolari di aziende chiamano la mafia per mettere a posto gli operai che occupano i loro posti di lavoro quando non ricevono stipendio; viene da chiedersi dove sia la fiducia dei cittadini nello Stato quando le parti lese vengono costrette dai carabinieri a testimoniare e non chiedono nemmeno il risarcimento danni. E questa mentalità è radicata in ognuno di noi, quando accettiamo di pagare un posteggiatore abusivo o quando, davanti al furto della nostra auto, preferiamo “chiedere a qualcuno” prima di denunciare alle autorità competenti. Sta solo allo Stato dare di più ai cittadini.

In chiusura, Bellavia ha anche parlato – un po’ polemicamente – del caso Experia: sarebbe giusto lo sgombero del centro sociale – «anche se i comunisti preferirebbero chiamarlo in un altro modo» – e non bisognerebbe ridurre la questione a «una manganellata in più o una in meno», dati irrilevanti poiché le forze dell’ordine «fanno solo il loro lavoro» e l’attività del CPO all’interno del tessuto sociale sarebbe scarsa. Come se in una zona come l’Antico Corso ci siano molti altri luoghi per allontanarsi dalla strada.


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