L’Italia, il Censis e lo spettro della povertà

È il terzo Natale di guerra!. Fa freddo. Nella maggioranza delle case, in città come in campagna, ci si scalda con le stufe. Carbone e legna si fanno sempre più rari.

Ci eravamo trasferiti a Temi. Mamma, quando poteva, mi faceva avere, da qualche paesano, un po’ di pane e di uova. Per riscaldarci preparavo durante tutta l’estate delle palle di carta. Si metteva tutta la carta e la cartaccia in un mastello di legno con un po’ d’acqua, poi si strizzava ben bene e se ne facevano delle palle. Bisognava lasciarle per un bel po’ al sole perché diventassero dure, e poi d’inverno si bruciavano al posto della legna. Avevo scoperto che se ci mettevo dentro i noccioli delle pesche o delle prugne, un po’ di aghi di pino o di polvere di carbone, le palle duravano di più, davano più calore e anche un po’ di buon odore. Ci si doveva accontentare.

La cenere della stufa, ancora calda, si metteva in un recipiente di rame per scaldare il letto e le mani.Faceva molto freddo. Forse sentivamo tanto freddo anche perché mangiavamo poco.

Avevamo le mani sempre piene di geloni.

Miriam Mafai, Natale del ’42

 

Non è facile per chi ama vedere il “bicchiere mezzo pieno”, stendere questo articolo, ancora sotto la vivida impressione ricavata dalla lettura del 46° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese che annualmente, grazie all’attenta osservazione di Giuseppe De Rita, consente di fotografare l’Italia, cogliendone le principali sfaccettature e, soprattutto, ricavandone una diagnosi il più possibile utile ad orientare i decisori ad ogni livello.

“Volge al termine un anno segnato da una crisi così grave da imporre l’assoluta centralità del problema della sopravvivenza. Una centralità quotidianamente alimentata dalle preoccupazioni della classe di governo, dalle drammatizzazioni dei media, dalle inquietudini popolari; dalla paura di non farcela, una paura reale, che non ha risparmiato alcun soggetto della società, individuale o collettivo, economico o istituzionale”.

Sono le prime parole usate per descrivere un 2012 che proprio mentre va a chiudersi registra, tra i tanti, tre fenomeni su cui invito i miei venticinque affezionati e pazienti lettori a riflettere.

Dalla resistenza alla restanza. Ancora una volta, il Rapporto Censis introduce nel lessico corrente un nuovo vocabolo, un neologismo destinato a entrare nel linguaggio comune degli italiani: la restanza

“Quando si è in crisi e tutto sembra venire meno è quasi automatico far conto su quello che ci resta, sulla “restanza”, per usare una focalizzazione semantica di Jacques Derrida che, partendo dalla parola résistance ed eliminando il “si” intermedio, evidenzia il concetto di restance, che ben esprime – anche nella traduzione – quanto sia essenziale nei pericoli difendere, riprendere, valorizzare ciò che resta di funzionante dei precedenti processi di sviluppo.”

Il Paese, deluso e inappagato da ogni proiezione sul futuro e incapace di investire sul cambiamento, si aggrappa a ciò che ha funzionato in passato. In altre parole, un’intera nazione piegata dalla più drammatica crisi dal dopoguerra ad oggi sembra dirigersi verso ciò che rassicura piuttosto che percorrere sentieri non battuti e aprirsi a nuove architetture politiche e sociali.

Tale fenomeno appare denso di rischi cultuali e di pericoli sociali e politici perché induce ad interrompere quel processo che, proprio di ogni crisi, dovrebbe allontanare da ciò che è stato ed orientare le scelte verso soluzioni inedite, quale unico atteggiamento corretto per non soccombere.

Si preferisce “infilare la testa sotto la sabbia” piuttosto che darsi un deciso colpo di reni per affrontare il cambiamento con spirito di ribellione verso il passato e che porrebbe le radici di un nuovo modo di essere e di concepire se stessi e la società. Un vento nuovo come quello che spira sui giovani del Nord Africa ed affronta il costo elevatissimo che ogni società paga al proprio riscatto.

Ma l’Italia – altra notizia di questi giorni – si conferma come Paese più anziano d’Europa e gli anziani, si sa, non fanno le rivoluzioni e, quanto al vento, se possono, lo evitano, proteggendosene accuratamente con ogni genere di sciarpe, cappelli e …ben tornite argomentazioni.

La superficialità tutta italiana di rinviare la soluzione dei problemi, il vizio atavico di differire le scelte e di non decidere, l’attenta persecuzione dei “profeti”, quasi sempre neutralizzati aggiungendo “di sventura”, l’assoluta sottovalutazione delle analisi che altri facevano del nostro Paese, ci ha fatto giungere impreparati dentro scenari che pure erano stati prefigurati da decenni e che, pur parzialmente, altre società europee si erano preoccupate di tenere in considerazione

“La realtà si è rivelata diversa da quella che ci aspettavamo, più complicata che nelle crisi precedenti, e così “perfida” da imporci una radicale rottura di schema anche interpretativo (prima ancora che decisionale e operativo). Ci siamo infatti trovati dentro fenomeni e processi non padroneggiabili, e in parte neppure comprensibili, da parte di soggetti da tempo sicuri di ricondurre le difficoltà alle proprie specifiche responsabilità di azione”

Fenomeni enormi quali la speculazione sull’euro e l’impotenza dell’Unione Europea, eventi estremi quali la prospettiva di default, la perdita delle sovranità più importanti per una nazione quali quella monetaria e fiscale si sono contrapposte alla supponenza tutta italiana di (non) risolvere problemi giganteschi, minimizzandone la portata, se non addirittura negandone l’esistenza.

“Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. “In rerum natura,” diceva, “non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne…” (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap.XXXVII)

Un Paese in guerra che non si è accorto di esserlo, ripiega ora nella consueta Caporetto e cerca – ipocritamente e senza troppo impegno – i generali felloni cui ha dato tutto il tempo per mettersi in salvo, mentre consegnavano i propri soldati al macello.

Nel 2001 Wolfgang Schivelbush ne “La cultura dei vinti”, ricordava che, a partire dagli anni ’90, l’economia si è sostituita nell’immaginario collettivo e nella prassi della lotta politica, alla guerra: “In Occidente la minaccia di estinzione collettiva non è più connessa con la guerra ma piuttosto con l’economia, con la doppia minaccia della devastazione ambientale e della disoccupazione”. (a destra, foto tratta da nannimagazine.it)

Lo stato d’animo dei vinti ha sempre scatenato reazioni talvolta diametralmente opposte, ma sempre animate da una grande volontà di rivalsa: è stato così con la Francia sconfitta nel 1870 a Sedan, con la Germania umiliata a Versailles nel 1918, con il Giappone messo in ginocchio nel 1945. La prima ha chiuso definitivamente con l’impero e ha generato la Repubblica, la seconda si è consegnata nella braccia di Hitler, il terzo ha perseguito nello sforzo economico una leadership durata mezzo secolo.

Nessuno di questi tre grandi Paesi si è ripiegato su se stesso ma, a modo proprio, ha reagito imponendosi una svolta culturale, politica o economica che segnasse, anche drammaticamente, ogni discontinuità con il passato.

L’Italia ha vissuto un simile processo solo esteriormente, rifiutandosi di fatto di cambiare veramente la propria classe dirigente e trovando nel trasformismo politico la soluzione ai propri problemi di tenuta sociale e negli aiuti esterni (Piano Marshall, prima e debito pubblico, dopo) quella, effimera, alle proprie emergenze economiche. Di fatto, non ha mai affrontato il problema del Mezzogiorno, preferendo, finché è stato possibile, la logica provinciale di mantenere succube un mercato interno che è diventato oggi il fardello più pesante per lo sviluppo complessivo. E, a presidio di ciò, ha voluto una classe dirigente ‘ascara’, priva del più elementare sussulto di ribellione e costantemente assediata dalle emergenza sociali e della criminalità organizzata, sovente utilizzata in modo più o meno esplicitamente pattizzio dallo Stato centrale per mantenere lo status quo.

Il mancato sviluppo del Mezzogiorno è la nemesi di un’Italia fatta troppo in fretta e priva di ogni necessaria saggezza per comprendere la differenza tra unificare e colonizzare. Provi il lettore ad immaginare quale sarebbe stata oggi la tenuta del Paese con un Mezzogiorno reso produttivo, conseguentemente infrastrutturato e culturalmente attrezzato per generare creatività e innovazione, piuttosto che attesa di ulteriore assistenza, variamente mistificata dietro un’industrializzazione pesante e devastante che oggi viene dimessa, a Termini come a Taranto, lasciando il posto al deserto sociale e dell’anima.

Mentre scrivo, ascoltando in sottofondo la trasmissione “In onda” condotta da Nicola Porro e da Luca Telese (negli anni ’90 veniva a Filaga, aveva “i pantaloni corti” e la mente già brillante) l’Ansa batte la notizia del ritorno sulla scena di Silvio Berlusconi.

Se non temessi di mancare di rispetto alla memoria di Amintore Fanfani, scriverei il “Rieccolo”. Ogni paragone sarebbe, comunque, ridicolo. Sembra quasi che Berlusconi abbia terminato anch’egli la lettura del 46° Rapporto del Censis. Quale musica per le sue orecchie! Gli italiani hanno paura, cercano di nuovo, come sempre, l’Uomo della Provvidenza e l’uomo di Arcore è ancora una volta pronto a rassicurarli. Lasciando il cerino acceso in mano a Bersani, che tardivamente, novello Schettino, cerca di virare a sinistra senza un progetto e solo nell’ormai usurata ottica della coalizione per batterlo, Berlusconi scatenerà tutto la propria potenza mediatica, l’indubbio carisma antieuropeo e il mai sopito desiderio di vendetta contro il capitalismo italiano d’antan che lo ha sempre snobbato.

Come Brenno, getterà la spada sulla bilancia che pesa i mesi trascorsi e pretenderà vendetta contro Monti e il Montismo, prendendone le distanze, rivendicando il beau geste del 2011 e proponendosi come la vittima, insieme agli italiani, delle politiche antisociali e dell’azzeramento del tessuto produttivo del Paese. Armi comunque formidabili, ancorché surrettizie, come la soppressione dell’Imu sulla prima casa, la riduzione della pressione fiscale e la fantasiosa seppur praticabile uscita dall’Eurozona, saranno puntate su un Paese che ama illudersi che sia possibile ritornare al passato rassicurante di quell’Italia di provincia che non riesce a diventare adulta attraverso la crisi.

Sarà Berlusconi a far tramontare Grillo ed il Movimento 5 Stelle, ingenuo e maldestro tentativo di generare un’alternativa puntando su una finta innovazione di processi di rappresentanza, negata nei fatti dall’italica vocazione al centralismo e da un opaco, talvolta inquietante, personalismo?

Un nuovo Natale di guerra è appena iniziato. Trova l’Italia ammantata di neve e gli italiani più soli, più poveri e più delusi, prigionieri della propria ignavia e accovacciati a scaldarsi alle residue speranze cui però chi non lotta, disposto a tutto, per la propria vera liberazione ha oggi sempre meno diritto.

Dietrich Bonhoeffer, teologo e pastore luterano, autore di Resistenza e Resa, così scriveva ai genitori il 17 dicembre 1943 dal carcere berlinese di Tegel, dove era stato rinchiuso con l’accusa di cospirazione contro il regime nazista. (a sinistra, foto tratta da daily.wired.it)

“Soprattutto una cosa: non dovete pensare che io mi lasci abbattere da questo Natale in solitudine”.

Fu messo in isolamento in una cella sudicia senza che nessuno gli rivolgesse la parola.La lettera continuava: “Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti in questa casa celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome”.

 


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