L’irriducibile mafiosità del boss Guttadauro nei salotti romani Dal possibile pestaggio di un ex ministro agli affari coi narcos

«Le carognate, le fanno a Palermo». Dall’alto della sua caratura criminale, Giuseppe Guttadauro vedeva nel tribunale del capoluogo una minaccia per l’eccessivo rigore. Al punto che, secondo alcuni collaboratori di giustizia, per diverso tempo avrebbe centellinato i ritorni in Sicilia rimanendo a Roma. Tuttavia il boss della famiglia di Roccella, arrestato ieri nel blitz Ymir, è finito soltanto ai domiciliari. La giudice Claudia Rosini ha motivato la decisione con l’assenza di «straordinarietà» nella esigenza di carcerazione sottoposta dai magistrati della Dda. Una valutazione imposta dall’età di Guttadauro – 73 anni, la scorsa estate – nonostante il suo «carattere di irriducibile mafiosità». In effetti, passando in rassegna le nuove vicende che vedono protagonista il dottore di Cosa nostra – titolo tutt’altro che fuori luogo, considerando il passato da primario dell’ospedale Civico – irriducibile è l’aggettivo che più si adatta al personaggio. Salito alla ribalta per essere stato al centro dell’indagine che portò al processo e poi alla condanna per favoreggiamento alla mafia di Totò Cuffaro, Giuseppe Guttadauro avrebbe continuato il proprio percorso dentro la criminalità organizzata, a metà fra tradizione e innovamento. 

Al centro dell’inchiestà è finito il coinvolgimento nelle dinamiche criminali del mandamento di riferimento, per il tramite del figlio Mario, arrestato e portato in carcere, ma anche la capacità di entrare in contatto con i salotti della Roma bene. Nella Capitale, Guttadauro sarebbe entrato in contatto con una coppia di coniugi facoltosi: il medico e docente della Sapienza Giuseppe Mennini e la moglie Beatrice Sciarra (non indagati). Sarebbe stata quest’ultima, secondo la ricostruzione degli inquirenti, a chiedere al boss originario di Bagheria un favore molto particolare: sbloccare un contenzioso con Unicredit per un valore di 16 milioni di euro. A mettersi di traverso, per non meglio precisati dissapori, sarebbero state alcune figure di spessore, tra cui Mario Baccini, già ministro nel secondo governo Berlusconi. Stando alle parole del boss, la donna gli avrebbe fatto capire che sarebbe stato necessario superare la diplomazia. «Qua è venuta una signora, è una fesseria – racconta un giorno Guttadauro al figlio Mario – Alla signora sembrava che veniva dal capomafia e io mi mettevo a rompere le corna a Baccini. Dove? I soldi devi portare prima». Della necessità di dover pagare chi sarebbe dovuto «salire» da Palermo, non potendo contare sui contatti con i Rinzivillo presenti a Roma in quel periodo colpiti da una retata, il dottore ne parla anche con un commercialista fidato: «I soldi ci vogliono». Il professionista, dal canto suo, ragiona su quanto quest’opera di mediazione possa fruttare: «Secondo me, il cinque per cento dell’operazione».

Tra i contatti che Guttadauro avrebbe coltivato nel corso della permanenza a Roma c’è anche Adriano Burgio. All’uomo, che dall’ordinanza non risulta indagato, il boss propone di trasformarsi in corriere della droga e fare affari con i narcos sudamericani. Il suo profilo, secondo Guttadauro, sarebbe stato perfetto in quanto assistente di volo di Alitalia. Il piano avrebbe previsto il trasporto di dieci chili di stupefacenti a tratta e, al contempo, del denaro necessario ad acquistare la droga. «Ti porti cento carte da cinquecento», gli spiega il boss. Aggiungendo che non è neanche detto debba fare il corriere, ma soltanto controllare che la persona incaricata arrivi a destinazione: «Può essere che magari li deve portare un altro e tu lo devi solo guadare, gli facciamo prendere l’aereo dove sei tu e tu conoscerai a lui». Quando l’assistente di volo valuta i pericoli connessi all’avere a che fare con i narcos, Guttadauro lo tranquillizza: «Non ti ammazza nessuno, questa cosa se deve arrivare, deve arrivare in Olanda, neanche in Italia, quindi – sottolinea – non la vediamo, non la tocchiamo, nessuno sa della tua esistenza». A suggerire i Paesi Bassi come punto d’arrivo del carico è Besart Memetaj, 34enne albanese (non indagato) che vanterebbe legami con la criminalità balcanica e che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato contattato da Guttadauro anche per procurare una laurea falsa al figlio Mario. 

Non è chiaro se il progetto di investire nel traffico internazionale di droga sia andato in porto o meno, a causa di problemi tecnici con lo spyware inoculato nei cellulari degli indagati. Una tecnologia che Guttadauro avrebbe sottovalutato, a differenza delle microspie ambientali. Di quelle, che all’epoca dell’indagine in cui fu coinvolto Cuffaro lo inchiodarono, il boss avrebbe dimostrato di serbare un ricordo molto limpido, evitando conversazioni all’interno di automobili e abitazioni. Del passato, personale e di Cosa nostra, Guttadauro ne parla in più di un’occasione. La sua idea è che ciò che è andato non può tornare. «Tutto quello che scrivono sono cazzate perché non è vero, ma loro lo sanno: non esiste il capo dei capi», dice il boss a gennaio 2018. Da qualche mese era morto Totò Riina. Di lì a poco un tentativo di ricostituire la commissione provinciale a Palermo sarebbe stato poi bloccato da un’ondata di arresti. Ad auspicare l’individuazione di un nuovo capo era stato anche uno dei figli di Guttadauro. Ma il boss aveva sbottato: «Ti devi evolvere, hai capito? Il problema è rimanere con quella testa…».


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