L’informazione dei cittadini? Ma l’ultima parola ce l’ha sempre il giornalista

Olivier Trédan è ricercatore all’università di Rennes e membro della “Rete di studi sul giornalismo”, uno spazio internazionale di ricerca.
 
Cosa ne pensa dell’espressione citizen-journalism? 
È un termine pasticciato che non ha molto senso. L’indebolimento delle frontiere tra fonti, media e pubblici riattiva l’immaginario di una comunicazione in cui i contenuti redazionali circolerebbero all’esterno dei circuiti mediatici tradizionali. Da un lato [in Francia, ndt] abbiamo Rue89, lanciata da giornalisti usciti dalla stampa tradizionale che legittimano la loro esperienza situandosi all’esterno dei media e affermando di volersi prendere maggiormente a carico il pubblico. Dall’altro, ci sono dei blogger che producono testi mobilitando fonti d’informazione inattese provenienti dalla cultura del web, tipo Fluctuat.net.
 
E le esperienze di giornalismo partecipativo? 
Abbiamo visto insuccessi a ripetizione. Il primo in ordine di tempo è quello dell’americano Dan Gillmor col suo sito Bayosphere, aperto a tutti i volontari della regione di San Francisco che avessero voglia di pubblicare degli articoli. Si è chiuso nel giro di un anno. In giugno è stato il sito Assignment Zero (www.zero.newassignment.net), filiazione del movimento di giornalismo civico lanciato negli anni ’80, che ha gettato la spugna. In Assignment Zero ogni individuo aveva una funzione sociale determinata. Il pubblico proponeva gli argomenti, in seguito i giornalisti ne disponevano. E’ un insuccesso interessante, considerato come utopia del rapporto tra giornalista e pubblico.
 
Ma alcune esperienze funzionano… 
Nel caso di Agoravox, si dà un’apparente libertà al redattore, anche se esiste un meccanismo di verifica. Pubblicare fa parte di una strategia di valorizzazione, e i collaboratori pubblicano spesso lo stesso articolo in vari spazi sul web. Agoravox funge così da nuovo luogo di mediazione, come i portali ai primi tempi del web. Consente di essere visibili. Rue89 è connotato come un luogo tenuto da giornalisti che godono di una maggior libertà perché si situano fuori dai media. Per il pubblico, mostrarsi lettori di Rue89 è una maniera di definirsi come lettori informati di un media alternativo… In fin dei conti ciò che conta è la maniera in cui il pubblico si colloca nei confronti di un media.
 
Qual è il profilo dei “cittadini-giornalisti”?
I contributi vengono spesso da giornalisti precari o praticanti, da internauti che si sentono legittimati ad esprimersi nello spazio pubblico. L’immagine che si staglia da Agoravox, per esempio, è quella di un prodotto giornalistico professionale che scoraggia i profani. Soprattutto perché occorre pubblicare il proprio curriculum vitae in allegato. D’altra parte non vi si trova quasi nessuna informazione pura, ma piuttosto uno sguardo personale e soggettivo sull’attualità, o reazioni ad articoli pubblicati sui media. È il limite di tale esercizio. L’obiettivo degli internauti che partecipano è di fornire un loro parere e di esistere attraverso l’attualità. Così come molti blogger.
 
Perché molti media ci si buttano? 
Quando nell’universo del giornalismo arriva un’innovazione tutti seguono. E’ andato allo stesso modo coi blog dei giornalisti: gli altri hanno copiato. A Le Monde si sta preparando una replica di Rue89, pilotata da Benoit Raphaël che aveva messo a punto la piattaforma partecipativa Quelcandidat.com al Dauphiné Libéré durante le presidenziali. Il citizen journalism vuol dire anche maggiore integrazione del pubblico nel media, considerato come “user generated content”. Si inizia con l’apertura degli articoli ai commenti, si passa alla creazione di spazi di pubblicazione, si approda alla creazione di una comunità. C’è uno slittamento della figura tradizionale del giornalista reporter verso un ruolo di mediazione e di convalida. Si lascia che il pubblico produca all’interno dei media, ma avendo in ogni caso l’ultima parola.
 
Andiamo verso la fine del giornalismo professionale? 
Esisteranno sempre dei giornalisti pronti a difendere il proprio territorio. Il giornalismo ha bisogno di barriere simboliche. La produzione di immagini e video può essere delegata al pubblico, come si fa su You Witness News [lanciato da Yahoo in autunno] per esempio. La produzione dei cineasti amatoriali conferisce quel tocco in più di autenticità. Ma la convalida, i commenti, il compito di mettere in prospettiva rimarrà il campo di attività proprio del giornalista.
 
[Questa intervista è comparsa col titolo “On laisse le public produire, mais on garde le dernier mot” su “Libération” del 20 agosto 2007, pp. 3-4. La traduzione è stata curata dalla redazione di Step1]


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