Libia, Calcagno ricostruisce la prigionia e la fuga «Liberi grazie a un chiodo, ho lavorato su serratura»

«Abbiamo sofferto la fame, la sete, le percosse, pugni, colpi di fucile, abbiamo dovuto fare i bisogni dentro una cosa di plastica. Poi un giorno loro sono entrati dicendoci che era tutto finito. Nei giorni precedenti ci avevano dato una tuta da mettere quando andavamo via. Ci hanno fatto vestire dicendo che tutto era finito e poi hanno preso Salvatore e Fausto e a noi ci hanno lasciati là dentro. Ci siamo chiesti come mai e la spiegazione che ci siamo dati era che forse non avevano posto. Mi è sembrata una scelta casuale». Filippo Calcagno, il tecnico siciliano della Bonatti tornato a casa dopo otto mesi di sequestro in Libia, ricostruisce il giorno in cui è finito il suo incubo. 

Non risponde alle domande su come lui e i suoi colleghi Gino Pollicardo, Salvatore Failla e Fausto Piano, questi ultimi due uccisi in circostanze ancora da chiarire, sono stati sequestrati. «Sono cose su cui sta lavorando la magistratura e su quello non posso parlare. Le cose mie personali ve le posso dire», ha detto Calcagno che non ha risposto nemmeno alla domanda sulla mancanza di una scorta armata durante il tragitto verso la base di Mellitah nel giorno in cui sono stati fatti prigionieri. Più dettagli invece su come sono riusciti a scappare, grazie soprattutto a un chiodo: «Ho lavorato molto su quella porta dietro la quale eravamo rinchiusi. Con un chiodo ho capito che si poteva fare molto. Ho lavorato sulla serratura, un legno duro, ma con la caparbia ho indebolito la parte. Poi ho chiamato Gino: “Forza, se dai due colpi siamo fuori“, gli dicevo. E così è stato. Dopo avere superato la prima porta, pensavamo che c’era la porta esterna, ma si è aperta facilmente». Una volta fuori, i due italiani si sono camuffati, «perché avevamo paura che ci fosse qualche altro gruppo fuori ci prendesse. Siamo andati sulla strada con l’intenzione di chiedere aiuto – continua Calcagno – però cercavamo la polizia perché era l’unica che potesse darci aiuto. E fortunatamente il buon Dio ci ha messo sulla strada giusta. Abbiamo trovato i poliziotti e poi da lì è stato tutto un crescendo. Io dopo circa un’ora sono tornato indietro con loro per riconoscere la casa».

Sull’identità dei suoi carcerieri, l’uomo di Piazza Armerina ricorda che «c’erano delle donne ed un bambino. Una famiglia di delinquenti, di criminali – spiega – Se erano dell’Isis? Non lo so, saranno loro a dire se sono dell’Isis o delinquenti. Per me sono dei criminali perché quello che fanno è atroce». Per gli ostaggi i primi giorni di prigionia sono stati quelli più difficili. «Non ci credevamo. Pensavamo di vivere un incubo – racconta Calcagno – Non ti rendi conto di quello che sta succedendo. Poi pian pianino abbiamo cercato di tenerci tutti con la mente chiara, ricordando i giorni, cercando di non sbagliare data. E ci siamo riusciti, tranne che per il 29 febbraio: non ricordavamo l’anno bisestile». Anche Pollicardo sottolinea come il trascorrere del tempo sia stato segnato dai richiami dei mujaheddin. «Non avevamo né cellulare né orologio e contavamo i giorni secondo le preghiere chiamate dai mujaheddin nelle moschee. Era una delle cose che facevamo per tenere in servizio il cervello».

Calcagno parla anche della fiducia e dell’ottimismo dell’altro siciliano, poi ucciso. «Abbiamo parlato di tutte le nostre cose, di cosa fare quando saremmo tornati perché ci credevamo nel nostro ritorno, specialmente negli ultimi tempi Salvatore Failla aveva una fiducia.. Diceva “dai, tranquilli. Ce la facciamo”». E proprio alla famiglia del tecnico siracusano che non ce l’ha fatta, va il pensiero di Calcango: «Vorrei che per prima cosa si ricordassero i colleghi che non ci sono più, perché immagino le famiglie cosa stanno provando adesso. Perciò il ricordo deve andare a loro. Noi abbiamo avuto la fortuna di tornare, loro no». 

Redazione

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