«Ricordo che Nino Pipitone da subito mal tollerava la libertà e la vivacità della figlia, che era una persona allegra e molto affettuosa». Lo dice il pentito Francesco Di Carlo in un interrogatorio del 21 giugno 2016. Durante il quale ricostruisce nel dettaglio l’agguato in cui Lia Pipitone perde la vita il 23 settembre 1983. «Rosalia era nata per la libertà ed è morta per la sua libertà», continua il pentito. Che descrive con precisione anche la mentalità mafiosa per cui le relazioni extraconiugali – provate o anche solo presunte – non possono essere tollerate da Cosa Nostra. «La stessa sorte è toccata prima alla sorella e poi alla cognata di Lucchiseddu». A subire lo stesso trattamento di Lia sarebbero state anche altre donne legate in qualche modo all’organizzazione criminale. Come, ad esempio, Giuseppina Lucchese e la cognata Luisa Gritti, punite dall’esponente di Brancaccio Giuseppe Lucchese che sospettava avessero degli amanti. Colpevoli, in verità, solo di una libertà inconciliabile con le regole della mafia.
A raccontare dell’omicidio delle due giovani donne avvenuto nel 1984 al bar Alba di piazza Don Bosco è anche Giovanna Galatolo, figlia del boss dell’Acquasanta Vincenzo Galatolo, oggi imputato nel processo per riconoscere Lia Pipitone vittima di mafia, la cui udienza preliminare è stata rimandata al 27 ottobre. Secondo i racconti, anche per le due donne sarebbe stata organizzata una messinscena. «C’è stato il periodo che si sono cominciati a verificare degli omicidi assieme agli amanti delle donne, perché Pippo Lucchese con una parrucca bionda ha ucciso sua sorella con la complicità di Pino Greco, detto Scarpuzzedda», dice la donna in un interrogatorio del 14 febbraio 2014. «Fra di noi donne c’era la ciuciaria. Parlavamo tutti di tutti i commenti che durante il giorno si facevano – prosegue Giovanna Galatolo – Quando furono arrestati all’Ucciardone, si commentò che Pippo Lucchese fece credere che sua sorella spacciasse droga ed era stata uccisa per questo. Lui stesso prese la busta della droga e gliela mise in macchina».
Pare, infatti, che sia stato lo stesso Lucchese – all’epoca latitante – a sparare alla sorella, indossando una folta parrucca bionda per non farsi riconoscere. Rimarrà ucciso lui stesso nella guerra fra clan mafiosi degli anni Ottanta. Anche il presunto amante della sorella, il cantante di musica napoletana Pino Marchese, viene ritrovato morto. Ha i genitali tagliati e messi in bocca. Un altro rituale di Cosa nostra. Tanto eloquente quanto raccapricciante, per sottolineare che le donne di mafia appartengono ai rispettivi uomini che le sposano. E da quel momento divengono intoccabili.
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