Il magistrato che ha combattuto il terrorismo e la mafia ha presentato a Catania il suo ultimo libro. La battaglia contro Cosa Nostra dura da 40 anni. «Ma forse può essere vinta, anche grazie a minoranze forti. Come ad esempio i giovani»
Le due guerre di Caselli
La giustizia è uguale per tutti? Perché l’Italia ha vinto la lotta contro il terrorismo, mentre combatte da decenni quella contro la mafia senza riuscire a venirne a capo? Sono questi i quesiti principali ai quali risponde il giudice Gian Carlo Caselli nel suo ultimo libro Le due guerre, presentato venerdì scorso nell’Aula magna del Monastero dei Benedettini durante un incontro con l’autore, organizzato da Cittàinsieme.
Protagonisti del libro sono i fatti e i personaggi di trentacinque anni di storia italiana, dalla Torino degli anni settanta, afflitta dal terrorismo, alla Palermo degli anni novanta, dilaniata dalla mafia, raccontati attraverso lo sguardo di un magistrato, oggi procuratore capo della Corte d’Appello di Torino, che si è occupato di reati di terrorismo riguardanti le Brigate Rosse e Prima Linea e che nel 1991 è stato consulente della commissioni stragi. Un giudice che ha fatto entrambe le guerre – una vinta, la prima, e una in sospeso, la seconda – per difendere la democrazia.
All’incontro, introdotto da Grazia Giurato di Cittàinsieme, hanno partecipato anche il professore ordinario di diritto penale dell’Università di Catania Salvatore Aleo, e la giornalista Pinella Leocata, che hanno definito il libro di Caselli facile, carico di valori e sentimenti, “l’opera di un uomo che crede in quello che fa e che forse per questo riesce a vivere blindato per 35 anni e che non cede neanche per un attimo alla lode di sé. L’unica tentazione cui cede è quella dei sentimenti, come la tenerezza che traspare per le vittime, i colleghi, le scorte, i pentiti”.
Prima di cominciare il suo intervento, il prof. Aleo ha voluto ricordare il procuratore Maurizio Laudi, grande amico del giudice Caselli, morto giovedì scorso a 61 anni, che lavorò negli anni ’80 al processo che portò alla condanna per mafia di 270 catanesi, tra cui tre magistrati illustri e il comandante provinciale dei carabinieri, sentenza che venne “ammazzata” nel ’92 dal giudice Carnevale. “La notizia, però – ha fatto notare il professore – non è stata riportata dal quotidiano catanese La Sicilia”.
Come ha ricordato Aleo, Caselli è stato osannato quando faceva la guerra alle BR e offeso e attaccato quando, invece, ha deciso di andare a Palermo per sconfiggere la mafia e occuparsi non solo di chi spara, ma anche degli agganci che questa ha all’esterno, con i cosiddetti ambienti perbene.
“Dei due piani che si continuano ad intersecare fino alla fine nel libro, quello sul terrorismo e quello sulla mafia, preferisco il primo, che mi sembra più semplice” – afferma il Prof. Aleo, che ha ricordato come le figure dei pentiti e dei pool siano nati grazie alla lotta al terrorismo e come questo sia rimasto abbastanza fuori dagli assetti culturali e istituzionali del paese a differenza della mafia. Analizzando il contenuto del libro di Caselli, aggiunge: “La mafia è un fenomeno trasversale e la difficoltà nello sconfiggerla dipende essenzialmente da tre fattori. Il degrado, del quale la mafia si nutre: se si lasciano quartieri di 80.000 abitanti, come Librino, isolati, la mafia se ne impossessa, trova lì il suo spazio. L’assenza dello Stato: se lo stato fosse presente, forte e compatto nella lotta alla mafia basterebbero pochi mesi per sconfiggerla, non 40 anni di guerra non ancora finita. E infine, gli interessi e le collusioni: la mafia fa soldi, fa fare carriera. La mentalità mafiosa, che ormai ci appartiene, fa sì che sia più difficile sconfiggere la mafia. Vogliamo farci togliere le multe, invece di pagarle o di evitare di prenderle, e abbiamo una visione distorta della democrazia: la vediamo come la possibilità di trovare strade alternative, per questo la politica è entrata nelle università e negli ospedali, altrimenti non ce ne sarebbe stato bisogno”.
L’unica cosa che secondo Aleo manca nel libro, e che invece avrebbe voluto trovarci, è l’analisi del rapporto tra la mafia e le professioni. “Si parla della politica e della manovalanza mafiosa, ma non delle libere professioni, del ruolo degli avvocati in Sicilia per esempio, delle riforme della procedura penale che ostacolano la giustizia e avrei voluto sentirne parlare di più da uno come Caselli, che è uno dei pochi per cui è stata fatta una legge contra personam”. Nel 2005, infatti, a seguito dell’emendamento presentato da Luigi Bobbio, che apportava una modifica legislativa alla riforma Castelli, Caselli non poté essere nominato procuratore nazionale antimafia per superamento del limite di età. La Corte Costituzionale dichiarò, poi, illegittimo quel provvedimento. L’autore de Le due guerre ha, però, rivendicato la presenza nel libro del tema della connessione tra mafia e professioni, che è però più ampiamente trattato in Un cittadino che non crede nella giustizia.
Il prof. Aleo, infine, ha ricordato i passaggi del libro relativi al processo Andreotti e all’affaire Cossiga, sotto la cui presidenza del consiglio fu impossibile processare il figlio del ministro Donat Cattin, accusato di terrorismo, che sollevano il tema della legge uguale per tutti e dell’obbligatorietà dell’azione penale. Temi ripresi anche nell’intervento di Pinella Leocata, che ha sottolineato come l’opera di Caselli parli di fatti e anni lontani ma, in realtà, ci interpelli tutti, proprio perché pone l’attenzione su una guerra che, come diceva Borsellino, riguarda tutti i cittadini.
Il lungo applauso di un’Aula Magna con pochissimi posti vuoti ha interrotto l’intervento della giornalista mentre esprimeva la gratitudine in nome dei siciliani al giudice Caselli, che per sette anni ha vissuto a Palermo pur non avendo mai la possibilità di conoscerla, perché costretto a vivere scortato e impossibilitato a girare per la città liberamente.
Il magistrato ha cominciato il suo discorso ringraziando tutti e salutando l’amico fraterno Laudi. Ha ricordato che il libro è stato scritto da suo figlio Stefano, che è un giornalista e che non ha voluto comparire in copertina, proprio perché segnato dal modo in cui il padre ha dovuto vivere, e come la lotta al terrorismo gli sia capitata addosso per caso, mentre sia stato lui stesso a chiedere di andare a Palermo: “La guerra al terrorismo l’ho fatta per caso – ha aggiunto – quella alla mafia l’ho scelta e questo libro è stato per la mia famiglia il primo momento di riflessione su tutto questo”.
Caselli ha ribadito che all’inizio il terrorismo aveva sì dimensioni ridotte, ma una rapidità di espansione preoccupante e crescente. Negli anni ’70, infatti, il Ministero degli Interni era arrivato a calcolare la cadenza oraria degli attentati. La lotta, però, è stata più decisa e condivisa.
“Per quanto riguarda la mafia, citando Dalla Chiesa, dico che per sconfiggerla si devono assicurare i diritti elementari ai cittadini. È preoccupante che, sia un uomo tutto d’un pezzo, un eroe come il Generale Dalla Chiesa, sia un mafioso come Pietro Aglieri, dicano in fondo la stessa cosa: se lo Stato non risponde ai cittadini ci penserà la mafia e loro finiranno, nelle condizioni di degrado, per rivolgersi automaticamente a quest’ultima”.
Secondo il giudice, per contrastare la mafia si devono unire l’antimafia delle manette con quella della cultura e quella sociale e dei diritti, come dimostra l’operato dell’associazione Libera, che con il progetto “Libera terra” rende produttivi i terreni confiscati alla mafia, dando lavoro e restituendo al cittadino dignità.
L’intreccio di interessi e collusioni è l’argomento centrale del libro, afferma Caselli, indicando come esempio la vicenda di Falcone che in vita chiese la legge sui pentiti, senza che gli fosse mai concessa. “Questi sono segnali: non si vuole far luce su certi argomenti, perché non si vuole rischiare di rimanere coinvolti. Riflettiamo sul fatto che quando facciamo passare il messaggio, assolutamente falso, che Giulio Andreotti è stato assolto, dimenticandoci che i suoi rapporti con la mafia sono fatti accertati, legittimiamo un certo modo di fare politica. Invece, dovremmo denunciare gli interessi e le collusioni, dovremmo discutere e riflettere sul lungo consenso che Andreotti, per sette volte presidente del consiglio, ha avuto e renderci conto che la mafia attraversa tutto il paese, non solo il mezzogiorno, vedi il problema del riciclaggio. Ricordiamoci di quanti reati in prima battuta non sembrano di mafia, ma in realtà lo sono: bancarotta, estorsioni, usura, corruzione, frodi fiscali, se si potesse direi anche falso in bilancio… questo mostra come la mafia sia un’impresa non solo criminale ma anche economica”.
Anche se 40 anni di guerra contro la mafia per alcuni equivale a una sconfitta, la guerra non è ancora finita e Caselli chiude il suo intervento con una nota di speranza: “la lotta è affidata anche ai giovani che sono una minoranza forte, ma capace di vivere il presente con radicalità. Hanno capacità di critica e coraggio e la loro può essere una vittoria difficile, ma possibile. Mi vengono in mente tanti esempi concreti: i giovani di Libera, Angus, Terra del fuoco, Cittadinanza attiva, i ragazzi di Addiopizzo e di Locri, ma anche quello degli industriali siciliani e delle associazioni antiracket”. Mostra il suo ottimismo il giudice Caselli, affidandolo ai lottatori di oggi, ma senza lasciarsi andare a semplicistiche e banali considerazioni sui giovani e il futuro, mostrando la consapevolezza di un uomo che ha sperimentato le due guerre e che non perde mai di vista le note sconfortanti: afferma, infatti, che “la strada è dura se un presidente del consiglio può chiamare eroe un mafioso e se i mezzi della giustizia vengono ostacolati”.