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L’attivista imprigionato nella Turchia di Erdogan «Fanno la guerra ai curdi, un regime paranoico»
«Se siamo riusciti a dormire con due fari puntati addosso? Se lo si vuole, si riesce a fare tutto». A poco più di una settimana dalla liberazione, Claudio Tamagnini – uno dei due italiani, insieme a Pietro Pasculli, a essere stati imprigionati nella Turchia del dopo tentato golpe contro Erdogan – racconta l’esperienza vissuta nell’arco di dieci giorni in un Paese che, oggi più che mai, sembra essere lontano dall’avere i requisiti di uno stato di diritto.
«La Turchia vive in uno stato di polizia – dichiara l’attivista originario di Alcamo -. Lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle passando da una cella del commissariato a un centro di espulsione, con in mezzo un processo in cui siamo stati assolti da accuse assurde come il terrorismo e lo spionaggio internazionale. Quello di Erdogan è un regime che si regge sulla paranoia». Tamagnini e Pasculli sono arrivati in Turchia il 22 luglio, pochi giorni dopo il fallito colpo di stato di una parte dell’esercito di Ankara. Obiettivo del viaggio, visitare i territori curdi, e studiare la resistenza contro il governo centrale nonché le repressioni di quest’ultimo delle aspirazioni autonomiste che caratterizzano città come Nusaybin.
Ed è proprio qui che il 25 luglio i due vengono fermati. «Fino a quel momento avevamo avuto l’opportunità di vedere gli effetti di quella che è una vera e propria guerra contro i curdi – prosegue Tamagnini – con aerei che bombardano le colline, incendiando le foreste, e la polizia che crivella le abitazioni. Abbiamo sentito anche storie di bombe a orologeria fatte esplodere all’interno delle abitazioni». Un vero e proprio assedio che, secondo l’attivista, avrebbe l’unico obiettivo di fiaccare l’animo dei curdi, facendo ricadere le responsabilità sul Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan, ritenuto di stampo terrorista da Ankara. «Abbiamo trovato anche un intero quartiere totalmente recintato – continua l’alcamese -. Per quale motivo? Per buttarlo giù, ricostruirlo e favorire l’insediamento dei siriani vicini a Erdogan, quelli che hanno fatto la resistenza a Bashar Al Assad».
La raccolta di testimonianze – orali e fotografiche – viene interrotta quando i due vengono fermati dalla polizia, portati nella locale stazione e rinchiusi in una cella per tre giorni. «Non abbiamo subito violenze, ma abbiamo vissuto tre giorni con fari fortissimi e una telecamera puntata addosso». Fino al momento in cui gli attivisti hanno capito che sarebbero stati processati. «Avevamo saputo che il giudice che avrebbe presieduto l’udienza era nuovo, nominato subito dopo le purghe di Erdogan seguite al colpo di stato – spiega Tamagnini -. Questo non ci ha fatto stare sereni, ma fortunatamente siamo stati assolti». Tuttavia, i problemi erano per i due italiani erano lungi dall’essere risolti. «Neanche il tempo di trasferirci in un motel e pensare a come ripartire per l’Italia che abbiamo sentito un’irruzione della polizia – ricorda -. Ci sono venuti a prendere spiegandoci che, nonostante la sentenza a nostro favore, il capo della polizia ci riteneva una minaccia e che quindi saremo stati espulsi».
Da lì il trasferimento in un Cie, dove i due attivisti hanno condiviso, per tre giorni, gli spazi con persone legate dal fatto di essere invise al governo di Erdogan. «Abbiamo ascoltato storie assurde. Un ragazzo è stato rinchiuso per aver fatto una battuta sul presidente, mentre si trovava a lavorare al mercato». La detenzione si è conclusa poi a una condizione. «Da Adana, la città in cui ci trovavamo, saremo dovuti partire per Instanbul, non prima di aver pagato di tasca nostra i biglietti di andata e ritorno per i due poliziotti che ci avrebbero scortato». Giunti nella metropoli turca, Tamagnini e Pasculli hanno potuto imbarcarsi su un altro volo direzione Italia. «Ufficialmente non abbiamo il divieto di tornare in Turchia, ma se oggi arrivassimo lì non possiamo sapere cosa ci spetterebbe. In quella nazione al momento la legge è un concetto astratto», conclude l’attivista siciliano.