Perché il montaggio “non è solo un’operazione tecnica, ma un’operazione espressiva a tutti gli effetti, che – non a caso – non prescinde mai dalla regia”. Per questo i ragazzi e le ragazze del “vecchio” e del “nuovo” (quello dell’anno scorso e quello che è appena iniziato) laboratorio su “Come realizzare un cortometraggio” sono stati invitati dalla coordinatrice Sonia Giardina all’incontro di giovedì scorso che porta il titolo “Teorie e tecniche del montaggio”. Incontro che, come tutti quelli organizzati dalla Facoltà nell’ambito del progetto Medialab, era rivolto anche a tutti i cinefili interessati ad approfondire un aspetto dell’arte cinematografica spesso sottovalutato.
Il montaggio, ci spiega Sonia, è così decisivo nel processo di creazione di un film che ad ognuna delle grandi tipologie registiche corrisponde un particolare “stile” di montaggio. Quelle analizzate nell’ambito dell’incontro sono quattro. C’è il montaggio classico, caratteristico –per l’appunto– della “Holliwood classica”: il montaggio della trasparenza, quello che si pone tra lo spettatore e le vicende narrate come una lastra di vetro che “non vuole farsi vedere”, che cerca di realizzare al meglio l’identificazione dello spettatore in quello che vede (e che per questo si serve di raccordi, di piccoli e grandi espedienti per uno sviluppo il più lineare possibile delle inquadrature), che ha in Howard Hawks e nel suo celebre “Dollaro d’onore” uno degli esempi più indicativi.
C’è il montaggio connotativo di Kuleshov ed Ejzenstejn che, proprio quando gli americani predicavano l’omogeneità e l’illusione di realtà, al contrario affermano l’importanza della sovrapposizione di immagini contrastanti, la frammentazione, il coinvolgimento dello spettatore, sì, ma dall’altra parte della macchina da presa. Un invito -a chi guarda il film- a farsi regista e sceneggiatore dando la propria interpretazione, che diventa parte integrante della creazione e priorità del regista effettivo. Con che mezzo? Il contrasto, il parallelismo tra visioni apparentemente lontanissime della realtà, ma che sovrapposte creano un significato altro, nuovo, che solo il loro incontro-scontro può generare. Un montaggio che si manifesta, dunque, allo spettatore. Che c’è e si vede. Perché si deve vedere.
C’è, poi, il montaggio che si fa portatore del desiderio di rinnovamento della nouvelle vague francese, anch’esso manifesto, ma a modo suo. Il montaggio del jump-cut, dei salti ingiustificati, degli sguardi in macchina proibitissimi dal cinema classico americano, e che invece con Godard fanno l’occhiolino allo spettatore. Il montaggio dei rallenty e del fermoimmagine, che manipola la realtà piegandola alle necessità delle vicende, dei pensieri e delle illuminazioni improvvise.
Il montaggio cosiddetto proibito, infine, che è il desiderio di eliminare qualsiasi interruzione, di filmare, come nel lunghissimo piano sequenza che conclude “Professione reporter” di Michelangelo Antonioni, più eventi contemporanei o immediatamente conseguenti l’uno all’altro senza stacchi, con la macchina da presa che “si esibisce” -quando è necessario- in acrobazie nascoste allo spettatore, ma pensate appositamente per permettergli una visione d’insieme.
E oggi? Oggi la pubblicità e i videoclip, tanto per fare due esempi, ci hanno abituati a tecniche che fino a qualche decennio fa avrebbero sconvolto i partecipanti ad una proiezione. Ma uno sguardo all’indietro è sempre utile per chi vuole fare propri gli artifici dell’ultima (e forse più controversa) delle arti.
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