Lampedusa? Qui non sbarca più nessuno…

dalla nostra corrispondente da Lampedusa
Paola La Rosa

Tra il 17 ed il 18 marzo ben 275 migranti che si trovavano su tre barconi in difficoltà a oltre 70 miglia da Lampedusa sono stati tratti in salvo e condotti sull’isola. Per poter fare ciò la Capitaneria di Porto ha dovuto derogare alla dichiarazione di “luogo non sicuro”. Questo perché , con un’ordinanza del 24 settembre 2011, il Comandante del Porto di Lampedusa ha stabilito “che il porto di Lampedusa sia da considerare luogo non sicuro per lo sbarco dei migranti ai soli fini del soccorso in mare”

Il provvedimento ha come effetto immediato quello di costringere i mezzi navali che effettuano il salvataggio a intraprendere un lungo viaggio – quali che siano le condizioni del mare e lo stato di salute delle persone tratte in salvo – per raggiungere uno dei porti della costa sud della Sicilia. Il che vuol dire perpetuare inutilmente rischi, sofferenze, disagi ed emergenza sia per gli operatori che per i passeggeri.

Questo è ciò che è già avvenuto in occasione dell’operazione di salvataggio condotta a poche miglia da Lampedusa l’11 novembre 2011, quando 44 profughi in mare da tre giorni su un gommone sono stati caricati a bordo di una nave militare e portati in Sicilia. L’unica ad essere trasportata a Lampedusa d’urgenza è stata una donna col proprio bambino partorito in mare durante il viaggio. Ciò a dimostrazione che proprio i soggetti più vulnerabili hanno trovato, come è sempre stato, soccorso, accoglienza, rifugio, salvezza e assistenza a Lampedusa, malgrado l’ordinanza.

L’obbligo per le motovedette della Guardia Costiera o della Guardia di Finanza di raggiungere la Sicilia per sbarcare i naufraghi comporta un grave rischio per chiunque abbia a trovarsi in difficoltà in prossimità dell’isola di Lampedusa: la prolungata assenza dei mezzi di salvataggio impegnati nei trasferimenti dei migranti in Sicilia, infattti, potrebbe condurre alla conseguenza di abbandonare al loro destino eventuali barconi carichi di migranti, imbarcazioni da diporto con a bordo turisti norvegesi o svizzeri, pescherecci di Mazara del Vallo o di Sciacca.

Ma l’aspetto più paradossale di questo provvedimento emerge dall’analisi della nozione stessa che il diritto internazionale fornisce di luogo sicuro (place of safety) definito (al par. 6.12 delle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare), “una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove (…) la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata, le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”.

Il concetto di luogo non sicuro è stato elaborato proprio in relazione alla condizione di vulnerabilità, in particolare, dei rifugiati e dei richiedenti asilo che corrono reali rischi di subire persecuzioni, violazioni della libertà personale e minacce alla propria incolumità fisica se sbarcati in territori che non garantiscono il rispetto dei diritti fondamentali.

A riprova di tutto ciò basta ricordare che, negli ultimi decenni, l’unico luogo nell’intero bacino del Mediterraneo ritenuto non sicuro per concludere un’operazione di salvataggio – specie allorquando i naufraghi erano migranti – è stata la Libia. Anche quando le operazioni di recupero in mare di persone in difficoltà avvenivano a poche miglia dalle coste libiche, mai le Autorità Marittime hanno ritenuto opportuno completare le operazioni di salvataggio presso uno dei porti di quel Paese, essendo noti i rischi cui sarebbero stati esposti i migranti che lì fossero stati fatti sbarcare.

Ebbene, è a dir poco paradossale che l’Autorità Marittima Italiana dichiari luogo non sicuro per lo sbarco dei migranti una parte del territorio nazionale, ed in particolare quella stessa isola che negli ultimi 15 anni ha salvato centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini (31.500 solo nel 2008 ed oltre 50.000 nel 2011) che qui hanno trovato approdo, riparo, accoglienza, cibo, assistenza medica, psicologica e legale.

Lampedusa si trova oggi ad essere ingiustamente assimilata ad un Paese come la Libia che non ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati, che non ha una legislazione in materia di asilo e che ha rinchiuso in carcere, torturato ed ucciso persone colpevoli soltanto di viaggiare in cerca un futuro dignitoso.

Stabilire con un’ordinanza che l’isola di Lampedusa (nella foto sopra, a sinistra, la cartina dell’isola, tratta da lampedusa 35.com; nella foto a destra una spiaggia di Lampedusa, tratta da laroccia.net) sia un luogo dove la vita, la sicurezza o la libertà dei migranti siano minacciate e dove non si possa garantire il soddisfacimento di necessità fondamentali per qualsiasi essere umano è un’assurdità che, oltre ad ignorare la realtà, si fa beffe della storia dell’isola e della sua lunga tradizione di terra di salvezza ed accoglienza e offende la comunità (oltre 6 mila persone) che vi risiede stabilmente. Una collettività fatta di bambini e ragazzi che frequentano la scuola, donne e uomini che lavorano, anziane ed anziani che hanno trascorso l’intera loro vita su un’isola che ogni anno accoglie, durante la sola stagione estiva, oltre 130 mila turisti.

Il paradosso ancor più inaccettabile è che a dichiarare luogo non sicuro questa isola sia stato proprio il Comandante di quelle decine di uomini che per anni hanno messo costantemente in pericolo la propria vita proprio per salvare migliaia di persone dal rischio di morire in mare per condurle in porto sane e salve a Lampedusa.

foto di prima pagina tratta da fondazionemarinasinigaglia.it

 

Paola La Rosa

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