La voce delle minoranze: Khorakhané

Non è facile parlare di De André attraverso una sola canzone. Ci sono tanti aspetti diversi nella sua poetica (possiamo tranquillamente definirla così): l’amore per Genova, l’influenza di Brassens, la lotta, la contestazione politica, l’ironia, il tema della morte, della solitudine… Fabrizio è stato un grande poeta che ha saputo parlare di tante cose, che ha descritto attraverso la musica il microcosmo e il macrocosmo dell’esistenza. Ma ciò che è sempre stata una costante nelle sue canzoni (e nella sua vita) è la sensibilità nei confronti dei discriminati,    degli umili, degli emarginati. È su questo che ci soffermiamo a riflettere: su Fabrizio De André come voce delle minoranze.

Nel 1996 usciva l’album Anime Salve, che nasceva dalla collaborazione di due cantautori: Fabrizio De André e Ivano Fossati. Una vera rarità nel panorama della musica italiana, senza dubbio di altissimo livello per quanto riguarda le liriche e gli arrangiamenti. Sotto tutti gli aspetti, sia musicali che tematici, uno dei lavori più interessanti di De André. L’album è considerato da alcuni il suo “testamento spirituale”, per l’intensità delle parole e la bellezza della musica che risente di diverse influenze e sonorità, da quella balcanica a quella sudamericana e mediterranea.

I temi affrontati hanno sempre un comune denominatore: lo schieramento dalla parte degli emarginati. Che è comunque la matrice fondamentale di moltissime canzoni di De André: in “Fiume Sand Creek” (L’Indiano, 1981), partecipava fermamente al sostegno degli  Indiani d’America, perseguitati e vittime di genocidi nella propria terra d’origine. Nel 1992, quando si festeggiavano i 500 anni dalla scoperta dell’America, il cantautore dichiarò che in quel “giorno di lutto” il suo cuore sarebbe stato con gli Indiani. Allo stesso modo venne conquistato dalla cultura della Sardegna (quasi un mondo a sé stante rispetto al resto dell’Italia), al punto di scrivere canzoni in dialetto prettamente sardo. Entrambe le etnie, diceva De André, sia quella indiana che quella sarda, possono ritenersi accomunate dalla stessa condizione: rinchiuse in riserve se non altro culturali, oppresse da dominazioni sociali.

Anime Salve rappresenta una delle opere più ricca di significati, e contiene una canzone in particolare che, oltre a presentarci un altro popolo di cui Fabrizio si interessò molto, i Rom, racchiude in sé (a mio parere) alcuni degli elementi fondamentali del pensiero e dello stile del cantautore: sto parlando di “Khorakhané”. In essa ritroviamo l’interesse verso il mondo dei diseredati, degli zingari. Il pezzo è infatti incentrato sulla vita nomade dei “Khorakhané”, nome di una tribù rom di provenienza serbo-montenegrina. «Sarebbe un popolo da insignire con il Nobel per la pace per il solo fatto di girare per il mondo senza armi da oltre 2000 anni» asserì Fabrizio De André durante il concerto al Teatro Brancaccio di Roma nel 1998.

Nella canzone i Rom vengono rappresentati come individui senza una vera casa e per questo assolutamente liberi e privi di condizionamenti economico-sociali (l’amore per la libertà è un altro dei temi ricorrenti nell’opera di De André); il viaggio degli zingari non ha una meta, anzi, gli zingari non si preoccupano neanche di averne una. Il loro eterno peregrinare non ha uno scopo, ma fa parte del loro DNA: “per un solo dolcissimo umore del sangue/ per la stessa ragione del viaggio viaggiare”. Da qui il cantautore prende lo spunto per lanciare una critica alle cosiddette “persone per bene” ed esprimere il suo disprezzo nei confronti dei moralisti benpensanti. “…e se questo vuol dire rubare…/ lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca/ il punto di vista di Dio” .

Non mancano neanche in questa canzone struggente i toni amari tipici di De André (“…i figli cadevano dal calendario/ Yugoslavia Polonia Ungheria/ i soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via…”), né il ricorso ad altre lingue: la coda finale, che rende il brano ancora più conturbante e d’ impatto, è scritta in romanì, la lingua dei Rom; in studio è cantata dalla moglie di De André, Dori Ghezzi. Per questa parte Fabrizio collaborò con un suo amico rom.

“Khorakhané” è infine una poesia intensa e incisiva, che rileva immediatamente la maestria di De André nell’arte di mettere insieme le parole. Le espressioni usate, le immagini che vengono evocate sono di una bellezza sconvolgente, ma, allo stesso tempo, manifestano una crudezza e un’asprezza che arrivano direttamente nel profondo dell’anima in modo sconcertante, come solo De André riusciva a fare. È la sintesi tra visione elegiaca di poeta e sapienza popolare.

De André infatti era un uomo dalla cultura vastissima, ma che non aveva mai voluto sconfinare nell’intellettualismo manierato. Anarchico fino in fondo, conservava un profondo disprezzo per ogni tipo di prevaricazione, sia fisica che mentale: la figura di intellettuale che elargisce il proprio sapere dall’alto di un piedistallo proprio non gli si addiceva. Era un uomo prima di tutto, il suo intento non era quello di rieducare il mondo né di rivelare verità nascoste. E proprio in questo, forse, sta la sua grandezza: l’aver detto tanto senza la pretesa di insegnare niente a nessuno.

«Il meglio della cultura viene sollecitato da persone che si trovano in minoranza e che proprio per i loro doni vengono emarginate e all’occorrenza perseguitate»


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