Un film inusuale nel panorama cinematografico nazionale. Incubi, apparizioni, citazioni e rimandi ai grandi classici del genere. Il bene e il male (e la mala) si scontrano sotto il cielo grigio di Torino
La doppia ora, italico noir
La doppia ora è un film italiano abbastanza inusuale. Una specie di noir calato in un’inospitale Torino dei nostri giorni. Sonia (Kseniya Rappoport), la protagonista, è addetta alle pulizie in un albergo. Ha padre italiano che l’ha ripudiata e madre slovena. Incontra Guido (Filippo Timi), un ex poliziotto, impiegato in un corpo di vigilanza. Tutto procede per il meglio tra i due, anche se l’ambientazione sempre un po’ tenebrosa può annunciare sviluppi funesti.
Succede che ad un certo punto in azione entrano in azione le forze del male, incarnate da un gruppo di malviventi determinati e violenti. E le certezze dello spettatore vacillano: l’identità di Sonia appare controversa. Le carte si mischiano: non si capisce se la ragazza dall’accento straniero sta con il bene o con il male (e con la mala).
Giuseppe Capotondi, il regista, apre un timido e incoraggiante sentiero per il cinema italiano contemporaneo, perennemente intrappolato nelle sabbie mobili del dramma borghese e di un provincialismo spesso compiaciuto. “La doppia ora” non eccelle in originalità, ma riesce a creare attesa e tensione.
Svariate le citazioni dei maestri maledetti: il telo di plastica ricorda “Twin peaks” di Lynch; la scena del seppellimento il secondo “Kill Bill” di Tarantino. Vabbè, poi c’è la vasca da bagno, arredo domestico, che piuttosto che nei negozi di sanitari andrebbe venduto dalle onoranze funebri (già la forma rimanda alla bara)… La confusione tra sogno e realtà, nella vicenda personale di Sonia, pare evocare il finale de “La venticinquesima ora” di Spike Lee.
Incubi, apparizioni, casini onirici: sono ingredienti inconsueti e singolari per il cinema prevedibile di casa nostra. Capotondi ha gettato un sasso nello stagno; speriamo che altri venga e faccia meglio.