‘La concessione del telefono’, luci e ombre

Una “P” al posto di una “M” e un cognome, Marascianno, che diventa Parascianno. Da questo equivoco prendono il via le vicende di Filippo Genuardi, della sua famiglia, dei rappresentanti dello Stato a Vigata, paese in cui è ambientato tutto, nonché di Don Calogero Longhitano, il mafioso del paese.

Parliamo de “La concessione del telefono”, lo spettacolo in scena in questi giorni al teatro Stabile di Catania e tratto dall’omonimo romanzo di Andrea Camilleri, che lo stesso autore ha adattato per il palcoscenico, in collaborazione con Giuseppe Dipasquale.

Un adattamento che non rende del tutto giustizia alla versione originale in cui il tono è piuttosto ironico e sottile che apertamente comico, la struttura più ordinata e coinvolgente. Lo spettacolo, lungo ben due ore e mezza, si snoda attraverso una successione di sketch in cui gli attori si muovo in una scenografia fatta di carpette e scartoffie, quasi a richiamare il carattere epistolare e burocratico di buona parte del romanzo originale. Gli episodi vengono collegati tra loro dall’ottimo Pippo Pattavina. È senza dubbio sua la performance migliore, bravissimo ad interpretare ben sette diversi personaggi. Manca tuttavia un sostanziale equilibrio tra la prima parte, che scorre lentamente, e l’ultima che risolve la vicenda forse con troppa fretta, lasciando lo spettatore ad interrogarsi su alcuni aspetti irrisolti della vicenda.

Oltre a quella del già citato Pippo Patavina, sono buone le interpretazioni di Francesco Paolantoni, nei panni del protagonista Filippo Genuardi, e di Tuccio Musumeci, Don Calogero Longhitano, ma anche di Gian Paolo Poddighe (Vittorio Marascianno) e Alessandra Costanzo (Gaetanina Schillirò).  Tutti parlano benissimo la lingua di Camilleri, quel siciliano tipico dello scrittore agrigentino, che gioca con il dialetto e le sue varianti, che si compone di modi di dire e neologismi capaci di creare una lingua originale densa di musicalità.

Silvia Lo Re

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