Il racconto di una poliziotta catanese che lavora in una casa circondariale italiana. «Mettono un tocco di femminilità dove possono e continuano a curarsi molto, specie in vista dei colloqui con i familiari - racconta - La vera sfida è la loro rieducazione»
L’8 marzo in carcere visto da un’agente catanese «Detenute trasformano le celle in angoli di casa»
«Il loro tocco di femminilità lo esprimono nell’abbellire le camere di pernottamento». Detenute che passeranno la giornata internazionale della donna all’interno del carcere ma che «ogni giorno provano, con gli oggetti che hanno a disposizione, a fare somigliare quel posto brutto e spoglio a un angolo di casa». Accortezze tipicamente femminili notate da un’altra donna che il carcere lo vive quotidianamente, una agente di polizia penitenziaria catanese che da circa quattro anni presta servizio nella sezione femminile di una casa circondariale italiana. «Il carcere è un luogo che ancora, troppo spesso, viene pensato declinandolo quasi esclusivamente al maschile sia dentro che fuori dalle celle».
Poliziotte donne per detenute donne. «Per loro e per noi – racconta l’agente a MeridioNews – non è più difficile confrontarsi con questo ambiente ma anche qui vengono fuori alcune dinamiche tipiche delle differenze di genere. Tra noi poliziotte, rispetto ai nostri colleghi uomini che riescono meglio a lavorare in gruppo, si creano forme di competizione mentre tra le detenute costrette a convivere i rapporti sembrano quelli che si creano in una casa famiglia o in una classe di scuola materna. Litigano per stupidaggini». Raramente si verificano aggressioni tra loro o al personale, si tratta di ritrosie nei confronti della compagna di camera o di capricci per la maglietta da indossare. Una convivenza che pare funzionare quella tra le donne, tra le sessanta e le ottanta a metà tra italiane e straniere, detenute nella casa circondariale veronese e le loro guardie. «La mia unica arma è una penna – dice sorridendo – con cui loro sanno che relaziono tutto ciò che accade durante la giornata».
Dopo la sentenza Torreggiani contro il sovraffollamento carcerario, emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2013, le porte delle camere di pernottamento rimangono aperte per l’intera giornata e le detenute non sono costrette a stare in pochi metri quadrati ma hanno a disposizione tutto lo spazio dei corridoi. Tornano nelle camere negli orari stabiliti per legge: cinque momenti della giornata in cui le detenute vengono contate «per controllare che non siano scappate, che stiano bene e che non si siano uccise». La mattina le celle vengono aperte intorno alle 8.30, dopo la colazione e dopo la battitura delle finestre della camera e del bagno, «una pratica che consiste nel battere sulle inferriate con un martello per controllare che non siano state manomesse», spiega la poliziotta. Oltre alla relativa libertà al di là delle sbarre e alle attività che possono svolgere all’interno delle mura, le detenute hanno la possibilità di lavorare anche fuori dal carcere per una ditta che realizza bottigliette per profumatori per l’ambiente.
«Non tutte, però, accettano la proposta di impegnarsi in attività lavorative e per queste la rieducazione è più difficile perché spesso chi rimane senza fare nulla continua a delinquere all’interno del carcere: rubano nelle camere rimaste vuote, spacciano le terapie e passano le ore d’aria (due la mattina e due il pomeriggio, ndr) a scambiarsi prodotti che hanno comprato con i soldi del conto corrente all’interno dell’istituto penitenziario». Smalti, trucchi, creme, bagnoschiuma, prodotti di bellezza e di erboristeria sono gli acquisti più gettonati di una lista della spesa che viene comunque controllata dalla direzione penitenziaria e consente di comprare solo merce certificata. «Anche dentro il carcere le donne continuano a curarsi, fanno la tinta ai capelli, si truccano, mettono lo smalto alle unghie, si depilano specie in vista dei colloqui settimanali con i familiari. Inoltre – aggiunge l’agente – questi prodotti possono diventare preziosi oggetti di scambio tra detenute».
La rieducazione passa da semplici regole di base che possano poi agevolare il reinserimento in società. «Devono imparare a gestire ciò che hanno a disposizione, a convivere, a chiedere le cose con educazione, ad avere stima delle autorità». Non tutte hanno pene lunghe da scontare e «la delusione peggiore è vederle tornare dopo avere vissuto un periodo in un ambiente in cui una ragazzina che ha compiuto un furto deve sottostare alle regole delle detenute più grandi o che hanno commesso reati più gravi. La maggior parte proviene da situazioni familiari disagiate e alcune, addirittura, tornano da detenute dopo essere entrate in carcere per i colloqui con i genitori».
Un mestiere impegnativo quello delle agenti di polizia penitenziaria «che non si può fare solo per portare a casa uno stipendio. Ci vuole passione», racconta la poliziotta che, dopo quattro anni nell’esercito e una missione all’estero, ha scelto la penitenziaria. «Quello del carcere è un ambiente che, da fuori, mi incuriosiva e su cui avevo pregiudizi nati dalle descrizioni che vengono fatte: piene di violenza e aggressività e con le detenute private di tutto». Il rapporto che si instaura tra controllore e controllate è complicato. «Cerco di essere professionale entrando, comunque, in empatia con loro – precisa – Vengo vista come dura e severa, sia dalle detenute che da alcune colleghe, ma lavoro seguendo tre principi: giustizia, buon senso e umanità che, però, non deve mai scadere in atteggiamenti accomodanti o in consuetudini non supportate dalla legge».
Insomma, nessun problema a concedere una coperta in più anche se non prevista, fermo restano il rispetto dei limiti da non oltrepassare. «Non faccio mai due pesi e due misure con nessuna di loro, mi faccio in quattro per risolvere le questioni burocratiche che consentano, per esempio, di fare le chiamate cui hanno diritto ma non vado mai oltre ciò che è consentito. Qualche volta le ascolto ma senza mai travalicare i compiti che spettano alle operatrici dell’area educativa. Sulle perquisizioni personali e dei luoghi – conclude – sono molto rigida perché il carcere deve avere soprattutto uno scopo rieducativo e dobbiamo essere noi poliziotte a crederci per prime, altrimenti resta un fallimento».