Italia baluardo della ‘fortezza Europa’?

L’introduzione del reato di clandestinità e l’approvazione del Ddl sicurezza confermano la linea dura del governo in materia di contrasto all’immigrazione clandestina. Esse, inoltre, ci ricordano un fatto di cronaca che suscitò grande clamore lo scorso aprile. Il mercantile Pinar, respinto dall’Italia in acque maltesi, era stato per giorni lasciato in mare, in attesa che si decidesse la sua sorte, senza alcuna cura per le condizioni sanitarie dei migranti a bordo. Solo il 20 Aprile, fu concesso ai  migranti e rifugiati a bordo del Pinar di approdare a Porto Empedocle, tra le proteste dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unchr) e del Consiglio di Europa.

Alle proteste dell’Unhcr il Ministro della Difesa Ignazio La Russa rispose testualmente che l’Unhcr conta come “il due di picche, cioè un fico secco”, facendo implicito riferimento al fatto che le istituzioni internazionali raramente dispongono di meccanismi automatici per far rispettare coattivamente le norme di diritto internazionale.  Un discorso diverso meriterebbe la capacità dell’Unione Europea di imporre ai suoi membri il rispetto del diritto comunitario. Allo stato attuale, però, l’UE non dispone di una politica migratoria uniforme e coerente: le competenze sono solo parzialmente comunitarizzate (cioè, sottoposte al processo legislativo comunitario e allo scrutinio della Corte di Giustizia) ed un buon margine di misure è ancora affidato alla cooperazione intergovernativa (che si basa su forme di armonizzazione delle politiche nazionali e sulla possibilità di concedere deroghe agli accordi comuni).

 

Eppure, il presidente del Senato, Renato Schifani, dichiarò già nel caso del Pinar che il respingimento in acque internazionali seguisse  regole di condotta previste dalle “norme delle intese europee”. In particolare, il Presidente del Senato alludeva alla Direttiva 2008/115/EC del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 Dicembre 2008 sugli standard comuni e procedure negli Stati membri per il ritorno dei i cittadini di Stati terzi entrati illegalmente.

 

Ma da un’analisi del testo, appare chiaro che la Direttiva non fa menzione della fattispecie dei respingimenti se non per imporre la protezione dei rifugiati ed il rispetto delle norme internazionali e comunitarie.   Il considerando 6 menziona il “divieto d’ingresso”, cioè casi analoghi a quello dei respingimenti, solo per ricordare il dovere degli stati membri di “rispettare integralmente i principi stabiliti dalla direttiva”, cioè, diffusamente, “i diritti e i principi fondamentali del diritto comunitario e del diritto internazionale, compresa la protezione dei rifugiati e le obbligazioni inerenti ai diritti umani” (Articolo 1 e, nello specifico, i considerando 21-24).

 

Nell’articolo 2, la Direttiva specifica che gli stati membri possono riservarsi il diritto di non applicare la Direttiva anche nei confronti di cittadini degli stati membri che “sono intercettati dalle autorità competenti nel tentativo di oltrepassare irregolarmente via terra, mare o aria, i confini esterni di uno stato membro”.  Pur ammettendo deroghe all’applicazione, la Direttiva, al considerando 9, fa esplicito riferimento alle procedure vigenti negli stati membri sul diritto d’asilo, dichiarando che “un cittadino di uno stato terzo che ha fatto richiesta d’asilo […] non dovrebbe essere considerato come residente illegalmente nel territorio, fino a decisione contraria […]”.

 

L’apparente opacità e la certa timidezza di questa Direttiva sono esemplificative dello stato della politica migratoria europea. Così, in sostanza, in caso di intercettazione o salvataggio in mare, gli stati membri mantengono, ad esempio, la propria competenza a procedere all’esame “delle esigenze di protezione dei richiedenti asilo tra le persone salvate o intercettate” e sono, caso per caso, chiamati a definire le attribuzioni di responsabilità di protezione nel caso di operazione congiunte.

 

L’UE, dunque, tenta di salvare capre e cavoli: da un lato proclama il rispetto dei diritti umani, compreso il diritto di asilo, dall’altro si avvale di norme molto flessibili e passibili di diverse interpretazioni, come lamenta, in termini un po’ meno laconici ma decisi, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa.

 

Ugualmente, non sembra che si possa affermare che la decisione del governo italiano di procedere a respingimenti possa derivare da questa direttiva.  La legittimità a procedere ai respingimenti potrebbe, piuttosto, derivare da accordi bilaterali, come quello firmato con la Libia, che permette di bloccare le navi in mare e di scortarle nei porti libici.

 

Il problema sta proprio qui: l’Italia ha diritto di gestire l’immigrazione clandestina sulla base di accordi con stati terzi, ma non quello di violarne  un altro, universale, quello dell’obbligo di previo esame della richiesta e delle condizioni d’asilo.

 

A ciò si aggiunga che dal luglio 2006 in Italia sono in vigore gli emendamenti della Convenzione SAR del 1979 e della Convenzione SOLAS del 1974, che impongono l’obbligo di soccorso e di assistenza delle persone in mare, senza distinzione di nazionalità o di status giuridico, e l’obbligo di condurre i naufraghi in un “luogo sicuro”, laddove per “luogo sicuro” non si intende la nave soccorritrice.  Considerata la condizione di violazione dei diritti umani a danno dei migranti in Tunisia e Libia (ed il fatto che la Libia non abbia ad oggi firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo Status dei Rifugiati) la decisione italiana di respingere i migranti verso questi porti è indifendibile. Stando alle dichiarazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, infatti, l’Italia non dovrebbe procedere al respingimento automatico, in nome del diritto concesso a tutti i migranti di fare richiesta d’asilo. Nella stessa dichiarazione, Hammarberg allude alla poca chiarezza dell’UE, che  non  da’ una definizione di “porto sicuro” nelle situazioni di salvataggio in mare e non fornisce alcuna indicazione su come le responsabilità vadano distribuite tra gli stati membri in caso di operazioni congiunte.

 

Non è questa la prima volta che l’Italia richiama l’attenzione per il suo approccio deficitario in materia di diritto d’asilo. L’Italia si è dotata di una legge concernente il diritto d’asilo solo nel 1990, con l’approvazione della Legge Martelli. Con essa, l’Italia espandeva la protezione dei rifugiati ai cittadini non-europei, la cui tutela era, fino a quel momento, assunta dall’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazione Unite. Nonostante il varo della legge, fino ad ora, l’Italia vanta pochi “rifugiati a norma”, cioè riconosciuti dalla Convenzione dei Rifugiati del 1951. La maggior parte dei rifugiati presenti nel territorio sono, infatti, gruppi ai quali è stato estesa la protezione temporanea e il permesso di restare per ragioni speciali ed eccezionali, come nel caso di circa 18.000  kossovari e 1.000 bosniaci, ai quali, nel 1999, è stato concesso di rimanere in Italia, non in nome del diritto di asilo, ma sulla base di queste misure speciali.

 

Ciò nondimeno, il problema delle migrazioni clandestine e dei viaggi della speranza non è vissuto dalla sola Italia. Secondo le stime di Fortress Europe, dal 1998 ad oggi, hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste dell’Europa, circa 13.771 persone, tra cui si contano 5.449 dispersi.

 

L’UE sembra essersi incancrenita nell’attesa che i suoi stati membri si accordino su come risolvere il binomio immigrazione-sicurezza, anche alla luce del calo demografico, della crisi economica e delle risorse che una buona politica migratoria richiederebbe. Considerato che l’Europa si è sviluppata attorno al perseguimento di quattro libertà fondamentali – libera circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e, non ultimo, delle persone – è oggi chiamata ad affrontare le tragedie del mare con più coraggio, e garantire il rispetto del diritto internazionale nel territorio dei suoi stati membri.

 

L’Italia, in questo quadro certamente confuso e poco omogeneo, sembra avere scelto il ruolo di perfetto bastione di una fortezza, di “bravo”, che fa vergognare il resto della truppa con i suoi eccessi di zelo e le sue (inumane) prove muscolari.  Tra aspetti muscolari e totale deficienza di misure tese a sviluppare l’integrazione, lo sguardo dell’Italia sembra offuscato da un approccio miope e ideologico, ben lontano dall’individuare un solido orizzonte di soluzioni utili, certe e conformi al diritto internazionale.

 

 

(nota: ultimo aggiornamento venerdì 3 luglio 2009)


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