Il presidente del Tribunale di Palermo Guarnotta è andato in pensione. Continuerà a «dare una mano», dice, finché non sarà scelto il suo sostituto: «Io sono un uomo fortunato, l'esperienza del Pool con Falcone e Borsellino è stata unica e irripetibile»
Intervista al giudice Leonardo Guarnotta In pensione dopo 50 anni di onorata carriera
Ore 14. L’intervista non era programmata, in partenza doveva essere una personale visita di saluto, ma da una chiacchierata è stato naturale chiedere se potessi trasformarla in un’intervista, l’ultima di certo da parte mia, all’interno della sua stanza, al secondo piano del palazzo di Giustizia, a Leonardo Guarnotta presidente del Tribunale.
Quanti anni di servizio ha?
«Come presidente del tribunale quattro e mezzo a Palermo, poi ci sono i precedenti sette e mezzo a Termini. Ma ho scoperto proprio qualche giorno fa che in tutto sono 50 anni, nove mesi e 25 giorni».
Il momento più importante della sua carriera?
«È stato di certo quello in cui sono stato chiamato a far parte dell’ufficio istruzione al momento della sua costituzione. Quell’ufficio voluto da Rocco (Chinnici, ndr), ma che non se lo è purtroppo potuto godere. Testimone poi passato a Caponnetto. Un lavoro, ripeto, sempre prestigioso, in cui le notizie circolavano tra i magistrati. Erano altri tempi quelli in cui si intuì che era necessario. Sono un uomo fortunato, l’esperienza del pool con Falcone e Borsellino è stata unica e irripetibile».
C’era un clima diverso tra i magistrati stessi…
«Eravamo stati scelti anche con affinità caratteriali, non c’erano invidie e gelosie. Ognuno, sempre nel rispetto dei ruolo e ben conoscendo le gerarchie, diceva la sua e dava indicazioni utili agli altri. Ci vedevamo il lunedì per discutere di quanto avremmo dovuto affrontare durante la settimana. Il fine settimana trovavo sulla mia scrivania un fascicolo con un post-it giallo con su scritto “A Leonardo per parlarne”, e lo stesso facevo io con i miei colleghi. E poi ci vedevamo il lunedì. Certo era più semplice, eravamo in quattro, prima in sei, e poi rimanemmo di nuovo in 4…».
Un ufficio incredibile che ha fatto scuola e che è rimasto nel sogno di tanti magistrati.
«Un sogno, sì. Il sogno di Rocco era poter dare la possibilità ai cittadini di poter essere liberi, liberi di non dover chiedere al mafioso quello che spettava di diritto, sapere che c’era un gruppo che lavorava per questo, per restituire dignità. Liberare questa terra da questa gramigna che è la mafia. La battaglia non è ancora vinta. Ci sono grandi passi avanti, ci sono le istituzioni che si fanno parte civile nei processi, cosa che prima era impensabile, ci sono le collaborazioni da parte dei cittadini e degli imprenditori che denunciano».
Già, gli imprenditori, le denunce, poi però sulla stampa escono fuori notizie come l’indagine a carico del presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante. Come fa un imprenditore ad avere fiducia così?
«Non devo dirlo a lei che ci sono l’inizio di un processo e poi tre gradi di giudizio prima di poter dichiarare qualcuno colpevole. Motivo per cui, vista la delicatezza dell’argomento, certe cose non dovrebbero uscire sulla stampa prima, proprio perché si crea un vuoto, sfiducia nella gente in questo modo».
Purtroppo politica e opinione pubblica sono due poteri fin troppo forti. Le notizie escono fuori e vanno dritte sulla stampa.
«Era diverso prima e c’erano giornalisti a cui un magistrato poteva dire, come capitava, anche dove sarebbe andato l’indomani, cosa avrebbe fatto, chi avrebbe ascoltato e la notizia sui giornali non usciva. Adesso non funziona più così. Motivo per cui è necessaria più riservatezza, da parte di tutti. E sono necessari riscontri. “Cercare riscontri con scrupolo spinto fino all’angoscia”, così dicevamo».
La politica quanto influisce nel lavoro che fate?
«Beh vede, influisce se glielo permetti. Noi nel pool si può sire che abbracciavamo tutto, da destra a sinistra (sorride mentre lo dice), ma sul lavoro questo rimaneva fuori, il nostro operato checché se ne potesse dire era scollato dalla politica».
Lei si rivolge sempre ai giovani.
«Per forza, sono l’unica speranza. Non posso che rivolgermi a loro. Si è come perso il senso comune dello Stato, dell’istituzione e va insegnato invece ai più giovani. Motivo per cui quando mi scrivono io cerco sempre di riceverli qui o di rispondere alle loro lettere. Qualche giorno fa mi ha scritto un giovane di 15 anni, di Caccamo. Lui è rumeno e voleva incontrarmi e l’ho ricevuto qui in ufficio. E come lui un altro ragazzo appena laureato mi ha scritto. Entrambe le lettere iniziavano con queste parole “So che non mi risponderà perché sarà preso da mille impegni”. Questa frase mi ha colpito molto, questa sorta di rassegnazione quasi a non essere ascoltati da un uomo che fa parte della magistratura come se fosse lontano anni luce. Bene, non deve essere così e io ho sempre cercato di far sì che questa distanza si accorciasse e continuerò a farlo finché potrò. E quando dei giovani ti scrivono come se facessi qualcosa di straordinario capisci che l’Italia è messa davvero male, perché non c’è nulla di straordinario in quello che faccio, che facciamo e se ognuno svolgesse il proprio lavoro per bene, se tutti facessimo il nostro dovere, non sembrerebbero cose straordinarie».
La politica ormai è vista come il nemico.
«Purtroppo quel che accade non aiuta è innegabile, la politica non riesce a fare pulizia e gli esempi di quel che dico sono lampanti. Uno degli ultimi in ordine di tempo? Prenda Greganti. Dopo 23 anni, Greganti è di nuovo sulle pagine della cronaca per la faccenda legata all’Expo. Ventitré anni e il suo nome è ancora sulla cronaca di oggi. Ma il cittadino ha il potere per poter cambiare le cose. In uno stato di diritto l’unica arma è il voto».
Ma lei ci crede ancora? Dottor Guarnotta, il voto dei cittadini purtroppo è solo carta, alla fine non siamo noi a decidere…
«Io ci credo ancora, non potrei fare altrimenti. È chiaro che è necessaria una riforma, che permetta davvero al cittadino di scegliere, un voto bloccato, per far sì che poi i segretari di partito si comportino in modo diverso da quello che accade per ora».
Fare il magistrato per lei era il classico sogno da ragazzo?
«Ho sempre voluto fare il magistrato, fin da quando portavo i calzoni corti. Sono innamorato del mio lavoro, fatto fino a 75 anni e spero nel modo migliore possibile. Ringrazierò sempre Caponnetto per avermi voluto in quello straordinario gruppo. Sa, prima che si decidesse di creare il pool, nell’’84 mi venne proposto di far parte di un altro gruppo, un pool Mani pulite che si sarebbe occupato solo di reati amministrativi, ma non accettai, non era quello che volevo fare, non ero interessato a quel tipo di proposta rispettabilissima anche quella senza dubbio. Ma volevo seguire il mio obiettivo. E poi quando arrivò la proposta di Caponnetto non potei quindi che esserne felice e onorato».
Rifarebbe tutto, quindi…
«Rifarei tutto. Quando lasciai c’erano un milione e 400 atti e 1500 fascicoli. E posso dire che li sapevamo tutti a memoria».
Quali quelli che le sono rimasti più impressi, quali storie?
«Potrei dire tutti ma sarebbe scontato. E allora se devo indicarne, certamente quello sull’assassinio di Mattarella, con l’interrogatorio ai Fioravanti, loro poi furono assolti. Ricordo la vedova di Mattarella… E poi il processo La Torre e quello Cassarà. E se c’è un uomo che mi rimase impresso è Antonino Calderone. Sa, noi non li abbiamo mai chiamati pentiti, ma collaboratori di Giustizia. Uno soltanto per me è un pentito e lo è stato davvero, proprio a livello cristiano. L’unico caso forse di persona folgorata sulla via per Damasco. Quando l’ho risentito tempo dopo, ero già presidente del tribunale, mi disse “Mi sono liberato di un peso, dottore, adesso posso guardare i miei figli negli occhi”. O Leonardo Vitale, certo, anche lui. Che spontaneamente iniziò a raccontare quello che sapeva. Fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico e ucciso perché considerato un traditore, non appena uscito».
Adesso cosa farà?
«Avrò più tempo per dedicarmi alle attività che facevo fuori dal palazzo, ma che erano comunque legate al mio essere prima di tutto un magistrato. Parlare di legalità, farlo coi giovani, cercare di indicare la strada giusta e quindi partecipare agli incontri con le scuole. Mi occuperò della Fondazione Falcone e dello spostamento delle spoglie di Falcone nel Pantheon degli eroi della Sicilia a San Domenico. Mi dedicherò al mio nipotino di un anno e mezzo, Leonardo, e continuerò a fare sport, il tennis».
Il suo collega, Vincenzo Oliveri presidente della Corte di Appello di Palermo, andato in pensione pochi mesi fa, si è candidato a sindaco di Villabbate, suo paese di origine, lei pensa alla politica?
«Io in Sicilia, a Palermo, in politica non mi ci metto».
Ha rimpianti? Un ricordo allegro? Cosa le manca di più?
«Rimpianti, credo uno, sì uno soltanto, il non avere incontrato Paolo il giorno prima di quella dannata domenica (19 luglio 1992, strage di via D’Amelio, ndr). Io ero a San Vito, lui era al palazzo di Giustizia voleva parlarmi. Il giorno dopo… Beh, sappiamo quel che successe, e il lunedì mattina quando rientrai nel mio ufficio, trovai un bigliettino da parte della mia segreteria che mi avvertiva del fatto che Paolo, il sabato pomeriggio mi aveva cercato per parlarmi con urgenza. Cosa voleva dirmi? Cosa c’era di tanto importate da cercarmi il sabato pomeriggio visto che ci saremmo rivisti il lunedì e che eravamo stati insieme fino a poco tempo prima? È una cosa a cui penso spesso. Di ricordi divertenti ne ho tantissimi. Vede si stava tutti bene insieme nel gruppo, poi com’è normale che sia, c’erano della affinità caratteriali più forti e per questo i primi ricordi che mi riaffiorano sono legati a Paolo. Un giorno venne nella mia stanza con suo figlio Manfredi, che allora avrà avuto meno di dieci anni. Io avevo in bella mostra tutte le mie coppe (vittorie al tennis). Un paio di giorni dopo, ricordo che Paolo entra nella stanza quasi buttando giù la porta e mi dice: “Io ti avrei ammazzato! Manfredi dopo che siamo andati via dalla tua stanza lo sai che mi ha detto? Papà, hai visto quante coppe? Quello sì che è un vero magistrato!”. E giù a ridere. Cosa mi manca? Sa, a maggio, Paolo mi portava sempre al bar e mi offriva il primo caffè freddo della stagione e mi diceva “Abbiamo campato un altro anno”. L’ultimo caffè freddo fu nel maggio del ’92, e Giovanni (Falcone) era ancora vivo».
Sorride e si commuove il presidente Guarnotta.
Con la mano cerca di asciugarsi gli occhi e mi ringrazia. Io tento di asciugare i miei e mi congedo: «No, grazie a lei presidente».