Abbiamo intervistato i registi ed autori del documentario “Même Père Même Mère”, Alessandro Gagliardo, Giuseppe Spina e Julie Ramaioli, opera che descrive la storia, la vita e l’usanze degli abitanti del Burkina Faso. Come è nata l’idea realizzativa per il documentario “Même Père Même Mère”? Come avete “scoperto” la realtà del Burkina Faso, da noi […]
Intervista a Alessandro Gagliardo, Giuseppe Spina e Julie Ramaioli sul documentario Même Père Même Mère
Abbiamo intervistato i registi ed autori del documentario “Même Père Même Mère”, Alessandro Gagliardo, Giuseppe Spina e Julie Ramaioli, opera che descrive la storia, la vita e l’usanze degli abitanti del Burkina Faso.
Come è nata l’idea realizzativa per il documentario “Même Père Même Mère”? Come avete “scoperto” la realtà del Burkina Faso, da noi semi-sconosciuta?
L’idea del film è nata quasi per caso, molto semplicemente, per un incontro fortuito avuto con Dario (un amico che viveva in Burkina) e per un sogno fatto qualche notte dopo da un’amica. Abbiamo iniziato a documentarci sulla storia del paese e siamo rimasti colpiti soprattutto dal rapporto che si viene a creare tra la situazione politico/economica mondiale attuale e la storia recente di questo paese, che è paradossalmente uno dei paesi più poveri e più sconosciuti al mondo.
Messa su la struttura di “produzione dal basso” abbiamo trovato della gente interessata a finanziare il nostro progetto e dunque il denaro necessario per partire.
Occorre però fare una piccola premessa a questo nostro dialogo: certo, “Même Père Même Mère” può essere visto come un documentario, ma soggettivo. Non quindi un “documento” che si dà come “portatore di realtà”, ma come qualcosa che “riporta” quella che è un’esperienza individuale. Questa per noi è una caratteristica fondamentale non solo di Même Père Même Mère ma del nostro lavoro in generale.
Come siete entrati in contatto con la popolazione di questo paese e come hanno accolto la vostra troupe?
Prima della partenza ci siamo messi in contatto attraverso e-mail con molti burkinabé che poi ci hanno ospitato molto volentieri. Questo vuol dire vivere con la gente del luogo e quindi condividerne la quotidianità. Ciò è possibile proprio perché non abbiamo, e non vogliamo lavorare con budget consistenti che fanno si che il tuo stile di vita (e dunque di lavoro) sia diverso da quello degli altri che ti stanno accanto. Entriamo in contatto con la gente perché non c’è differenza tra noi e loro, per intenderci: non ho il denaro per vivere in un albergo o per mangiare ogni giorno al ristorante, sono esattamente un uomo come te. Quando parli di troupe mi viene un po’ da ridere perché è un termine che implica un metodo di lavoro che abbiamo rifiutato totalmente. In Burkina Faso avevamo due camere DV, una macchina da presa 16mm, una macchina fotografica, un microfono professionale. Nient’altro. Ognuno è trasportato dalle proprie, personali, sensazioni, gira a suo modo e quando vuole. Accendi la camera quando lo senti, quando lo percepisci, non ci sono filtri tra te e ciò che hai davanti.
Dal vostro lavoro emerge tutta la difficoltà ma anche l’orgoglio di una nazione nata dal nulla, a tavolino. Secondo voi l’Africa subisce ancora l’ondata del colonialismo occidentale?
L’Africa di oggi è senza dubbio il risultato del perpetrarsi di una sottomissione economica e politica al benessere occidentale, si parla, anche nel film, di una battaglia al neocolonialismo. Già Sankara tra il 1983 e il 1987 aveva ben definito quali fossero i nemici delle masse popolari africane (così come di quelle europee – aggiungeva) e indicava nel Fondo Monetario Internazionale, nella Banca Mondiale, nelle politiche dei governi occidentali e nelle gigantesche imprese della finanza e del consumo, i nemici del popolo a livello internazionale. Sankara fu ucciso per questo motivo o forse, meglio, per permettere che un presidente di cartapesta (al potere da vent’anni) facile alla corruzione e fondamentalmente fascista (di pratiche fasciste) potesse diventare il primo interlocutore, il pupo, del governo francese prima e di tutta l’Europa democratica, Italia compresa, poi.
Molte riprese sono dedicate ai bambini ed alla coltivazione della terra. Sono la speranza o un dolore per l’Africa?
Al di fuori della simbolizzazione che se ne può fare con molta facilità, possiamo dire che i bambini in Burina Faso sono la fascia di popolazione più numerosa e che l’agricoltura è l’attività lavorativa maggiormente praticata. Uno degli aspetti che vengono fuori dal film è proprio l’assenza di domande del genere. Speranza o dolore? Se mi pongo questa stessa questione per i bambini europei non riesco a rispondere per le stesse ragioni. I bambini africani conducono la loro esistenza, e questa è fatta di momenti di felicità e di tristezza esattamente come per tutti gli altri bambini al mondo. Occorre a nostro avviso mettere da parte quella visione dell'”Africa povera che va aiutata”, perché crediamo sia uno dei motivi più distruttivi dell’identità e dell’esistenza stessa di questi popoli. Come ha detto Odile Sankara in una conferenza poco tempo fa, “fateci un piacere, non vogliamo aiuti di nessun genere, statevene a casa a combattere le vostre multinazionali”.
Mi ha colpito una frase detta nel documentario “una cultura è ricca, quando è creativa”. Potete commentarla?
Quella frase continua in questo modo: vale a dire ogni volta che trova delle nuove soluzioni ai problemi che le si pongono. Se un’idea del genere colpisce probabilmente lo si deve alla verità che contiene.
I riti tribali e un senso forte della comunità. Come si mescolano questi due aspetti con la politica di un paese dove non sono rispettati i diritti umani?
Questo lo si dovrebbe chiedere ad un antropologo. L’unica cosa che possiamo dirti è che spesso i riti tribali non sono altro che una manifestazione della corruzione del sistema. Spesso vengono organizzati riti tribali per “distrarre la massa”, non per niente molti degli organizzatori di eventi del genere, che richiamano centinaia di persone, indossano magliette che pubblicizzano la faccia di Blaise Campaore (attuale presidente assassino) o il suo partito. Il senso della comunità, nella nostra esperienza che ripeto è soggettiva, l’abbiamo davvero percepito solo nel Sahel cioè nella zona a nord del Burkina, nel deserto. In quelle zone senti l’essere umano come raramente accade nella vita e crediamo che nel film questo aspetto sia trattato.
Potete raccontarci qualcosa di più dell’italiano Dario, uomo occidentale arrivato in Africa?
Dario è un amico che ci ha accompagnato nel viaggio, e che lavora per il Centro Ghélawé, un centro di cooperazione dal basso fondato da un burkinabé che vive tra l’Italia e il Burkina. Questo è il link del centro: www.centroghelawe.org
Come avete curato la splendida immagine del documentario? Con che tecnica avete effettuato le riprese e la post-produzione?
Il più è realizzato in fase di ripresa (a parte ovviamente la rielaborazione delle immagini nella scena di Ouagadougou). Il film praticamente non ha avuto una vera e propria fase di post-produzione. C’è un legame molto particolare tra la fase di ripresa e quella successiva di montaggio. Come ti dicevo molto dipende dalla sensibilità del momento, da un’impulsività che si sviluppa nell’atto poietico, di creazione. E’ il frutto di una serie di esperimenti fatti negli anni passati, per i quali abbiamo abbandonato l’idea data (e datata) di linguaggio, per riuscire così a riconoscere e abbattere quelle unità segniche che ci si porta scolpite dentro e che conducono alla costruzione seriale di una frase. Quindi occorre andare oltre l’atto abitudinario dell’occhio e della mente (abbattere la concezione prospettica, di profondità di campo, come di tutte le forme di raccordo presenti nel linguaggio cinematografico), andare oltre il quadro stesso per calarvisi in profondità e riuscire a far venire fuori quella che chiamiamo la “mano visibile” (contrapposta a quella “invisibile” che secondo Smith regola le leggi del mercato, e traslando ironicamente, contrapposta a tutto quel cinema sempre uguale perché spinto dal denaro e da flebili e inutili influssi creativi).
Come state distribuendo il film e come credete si possa migliorare la distribuzione dei film italiani in sala?
Continuiamo ad utilizzare un metodo che si è autodeterminato in sincrono con la nostra necessità primaria di avere uno scambio diretto con la gente, con le persone, con il loro pensiero ed il loro punto di vista critico. Sino a questo momento abbiamo realizzato più di 15 proiezioni in diversi luoghi che noi consideriamo, di fatto, luoghi di cinema. Parliamo di librerie, aule universitarie, circoli associativi, sedi di cineforum, sale da festival, centri sociali, cineclub, etc. Senza considerare le proiezioni private a casa di amici in giro per l’Italia con 8/10 persone sedute a guardare il nostro film. Questo per dire che non ci poniamo in termini di emergenza la questione sala. E’ la sala piuttosto che deve porsi il problema dell’emergenza, che deve riconsiderare la propria politica prima di diventare un’industria dismessa e poi, dopo, una sala bingo, un bowling o un supermercato. Continuiamo a maturare un’idea per la quale la concezione classica della distribuzione, che in Italia pare essere vincolata concettualmente alle sale ed alle vendite alle televisioni (cioè due settori-ectoplasma per il cinema contemporaneo, specie se italiano) non è per noi indice della riuscita o meno di un film. Contestualmente alla visione e dunque alla proiezione, cerchiamo di diffondere delle idee, dei metodi, delle intuizioni. Il concetto che sta alla base di ciò che noi intendiamo come diffusione (per intenderci l’ex concetto della distribuzione) è la possibilità di innescare dei processi che possano accelerare lo sviluppo di un nuovo dibattito che implichi in prima luogo le energie, le idee, i pensieri, le visioni di individui di questa contemporaneità: a prescindere da qualsiasi riflusso economico o chiusura di cassa. Immaginiamo che la circuitazione di film italiani possa migliorare, cioè essere per lo meno visibile, nel momento in cui per primi i cineasti, i filmaker, i registi italiani riuscissero a riposizionare l’idea del loro lavoro e di se stessi all’interno della società e non nella struttura meccanismo (in avaria) cinema. Certo è anche chiaro che nel frattempo, ad esempio, autoproduciamo e vendiamo i nostri dvd senza aspettare che qualcuno lo faccia per noi.
Come considerate l’attuale panorama cinematografico italiano?
Crediamo ci siano parecchie esperienze interessanti in Italia in questi anni, che però non sono incluse nel “panorama”, nel senso che non sono molto conosciute. E ciò è dovuto allo scadente lavoro della maggior parte dei festival, delle riviste cosiddette specializzate e di quelle organizzazioni che nascono come nuove ma sono già vecchie (perché vecchi sono i modi di pensare il cinema e di farlo, tanto economicamente quanto creativamente). Stiamo cercando di rintracciare queste esperienze, di riconoscerle e di intrecciarle tra loro prima che scompaiano nel nulla o che vengano risucchiate dalla macchina. La nostra ricerca sta anche in questo. Diffondiamo i nostri film e altre produzioni non per guadagnarci (il guadagno è molto, molto limitato) ma perché riteniamo di fondamentale importanza la diffusione di concetti e linguaggi nuovi che passino attraverso filtri non istituzionali, perché solo attraverso questo tipo di eterogeneità e di veicolo è possibile uscire dai canoni e dalle corruzioni sociali, culturali, politiche, economiche che dominano, gestiscono, covano tutti (tutti!) gli apparati della nostra società.
[ Pubblicato da Simone Pinchiorri su www.cinemaitaliano.info]