Racconto di un interrail che da Reggio Calabria ci ha portati fino in Scandinavia, tra memoria e consigli d'tinerario.
Interrail verso Capo Nord…o quasi
Chi non ha mai sentito parlare del mito di Capo Nord alzi la mano.
Il punto più alto d’Europa, il tetto della Scandinavia, sinonimo di viaggio-catarsi, di spedizione-giro di boa della propria vita, viaggio del post-maturità ora esami di stato.
Ecco, l’itinerario proposto in queste pagine di step1 porta invece il titolo: come arrivare quasi fino a Capo Nord e finire i soldi.
Quando con l’atlante in mano aperto sul “leone” scandinavo la nostra mini squadra di viaggiatori ha annunciato che avrebbe attraversato l’Europa in treni di seconda classe per raggiungere, appunto, Capo Nord, buona parte della gente attorno ha cominciato un divertito sfottò nei nostri confronti.
Beh non avevano tutti i torti perché noi non avevamo mai dimostrato d’essere troppo avvezzi alle scomodità, alla vita improvvisata, agli schienali duri dei treni ed alle notti in tenda.
Comunque, quando la mattina del 30 di Luglio del 2001 ci ritrovammo a partire dalla stazione di Reggio Calabria (ci siamo voluti evitare un caldo traghettamento), sulle spalle portavamo uno zaino pesantissimo con roba per settimane, sacco a pelo, tappetino, cibo per la prima notte, oltre che la tenda comprata per l’occasione (l’acquisto non era stato un Occasione ), e nelle mani il biglietto Interrail che copriva le zone G (Italia e Grecia), B (Svezia, Norvegia, Finlandia)e C (Austria, Svizzera, Germania e Danimarca).
Il primo tratto fu di quelli davvero massacranti, Reggio Calabria – Bologna (18 ore) tutto d’un fiato bollente di un Luglio bollente. Sotto le torri dell’asinello sosta di cinque-sei ore in cui divoramomo nella catena “Pastarito Pizzarito” gli immancabili tortellini bolognesi. Bologna era bella come al solito ma un po svuotata dalle emigrazioni estive. Alla ripartenza scopriamo di aver viaggiato gratis perché il contratto interrail prevedeva per la zona italiana solo uno sconto del 50%, noi invece, un po perché c’era caldo, un po perché lo zaino era troppo pesante, un po perché avevamo l’attenuante del tipo: 3 diciottenni distratti e spaesati che avevano frainteso questo punto, arrivammo poi a passare il Brennero senza pagare un soldo.
Bologna – Monaco di Baviera.
Peggio del primo pezzo. Le circa 12 ore di attraversamento delle Alpi le trascorremmo sdraiati sulla moquet decisamente sporca del corridoio del treno insieme ad una signora di Napoli che sosteneva che il caffè tedesco era migliore di quello italiano
quando i poliziotti tedeschi in giacca verde, evitando le nostre carcasse per terra ci chiesero la carta d’identità, capimmo d’essere in prossimità della Baviera.
A Monaco ci divorammo tre wurstel grigi dentro un panino al latte inzuppato di ketchup e Coca Cola alla ciliegia, ne avete mai viste in Italia?
Il tourist information ci indicò un campeggio dove sostare la notte: il Talkirken Park, appena fuori da Monaco città. Il campeggio era una sorta di villaggio turistico ma nonostante ciò il prezzo era basso: circa quindici marchi a notte (=15 mila lire a notte=7 euro circa).
In quel luogo ci fu il primo tentativo di montaggio tenda, dopo mezzora ci riuscimmo, avremmo migliorato man mano che il viaggio si fosse protratto fino a battere qualsiasi record.
Facemmo anche la prima wash machine per 3 marchi.
Fummo ospiti di Monaco per 3 giorni. 3 giorni in cui ci abbuffammo di tutta la carne (wurstel, costolette di maiale, hamburger) di Germania. Visitammo il centro con la splendida Marienplatz, il grattacielo della BMW, la chilometrica torre della TV, i diversi negozi della catena WOM (World of Music) e la famosa birreria Hokenavs, dove si va a litri di Birra, fisarmoniche, bretelle. Un vero e proprio ombelico del mondo tra scozzesi, giapponesi, catanesi, spagnoli ecc..
Tutti bevono a Monaco, anche le persone più anziane. E proprio un signore anziano con la moglie ubriachi fradici precipitarono a terra davanti a noi, portandoci ad improvvisare il nostro scarso inglese per chiamare soccorso.
Il furto del nostro zaino con il vocabolario italiano-inglese (un guaio) chiuse la tre giorni bavarese.
Monaco – Copenaghen
Un’altra quindicina d’ore ci portò a Copenaghen, la temperatura cominciò ad abbassarsi notevolmente. Anche qui ci rifugiammo in un campeggio fuori città. Ma stavolta questo “vantava” di un preoccupante minimalismo di servizi. Le docce tiepide solo, il market costoso tanto, le informazioni scarse molto. In più i danesi della reception (chiamiamola così) si prendono gioco di noi perché il campeggio prevedeva due fogli d’istruzioni di pagamento: uno in inglese ed un in italiano
Incassammo. 1 a 0 per la Danimarca.
Nella capitale nordica passammo di fronte al Tivoli, il parco divertimenti più grande d’Europa, ci tuffammo nello STRÆDET, lunga zona chiusa al traffico piena di negozi tipici e folklore dove
c’imbattemmo anche nei truffatori della “pallina nel bicchiere” di sapore partenopeo, e questo ci face sentire un po a casa
Nel nostro errare finimmo nel quartiere di Cristiania. Grande, immenso mercato delle droghe leggere. Immaginatevi la fiera di Catania per tre volte, ma che vende solo marijuana, hashish ecc..fummo costretti a spegnere la nostra telecamera e a nascondere sotto i giubbotti le macchine fotografiche.
Il posto era irreale. Si narra che nonostante la polizia danese chiaramente conosca questo quartiere, come una piccola Olanda, ci sia una specie di tacito assenso.
La pioggia cominciò a calare ma non potevamo lasciare quella città se non prima d’andare ad ammirare la famosa sirenetta. Due turisti giapponesi ci sviarono, ci perdemmo più volte a causa della cartina bagnata finche, da lontano scorgemmo quella bambolina sdraiata sullo scoglio.
La delusione fu tanta quando scoprimmo che l’incomparabile simbolo di Copenaghen non era altro che una minuscola scultura s’uno scoglio vicino alla costa. Facemmo le foto di rito ma ce ne andammo borbottanti. Pareggiammo così in extremis il nostro conto con la Danimarca: 1-1.
Da Copenaghen a Malmo (Svezia) fu come bere un sorso d’acqua. Venti minuti grazie al ponte di 8Km che unisce i due stati, meraviglia architettonica datata ’95. Pensando a questa sinergica collaborazione ingegneristica svedese-danese oggi, a quattro anni distanza, mi viene da storcere il naso di fronte al 2-2 dell’ultimo europeo (scherzo, mica tanto).
Malmo è una meraviglia, sembra uscita da qualche libro di Andersen, tutte le case in tinta e le strade pulite. Restammo comunque poco lì, perché dopo un boccone partimmo per immediatamente per Stoccolma.
Un pianto divino ci accolse nella capitale svedese. Pioggia forte e continua. Riuscimmo a stento a montare la nostra tenda ed infilarci dentro.
Sbirciando nei giornali e nei meteo delle televisioni dei bar scoprimmo che una perturbazione stava facendo il nostro stesso interrail. Comunque il tempaccio ci concesse una tregua dandoci la possibilità di visitare Stoccolma e di affibbiarle il titolo di città più bella del nord.
Gamla Stan è la zona medioevale della capitale, le strade piccole e deliziose, negozietti tipici e ovviamente movimento di turisti. Specialità della casa pretzel con marmellata di frutti di bosco, consigliato. Stoccolma regala ai turisti uno scenario suggestivo coi suoi palazzi multicolori adagiati sul mare e con il senso di pulizia (architettonica, urbana) davvero spiccata. Da bravi curiosi, approfittando degli sconti che garantiscono alle student card, ci tuffammo in alcuni degli oltre cinquanta musei della città: Vasa Museet, museo marino, tesori della regina.
Unico inconveniente, i prezzi. Il tenore di vita in Svezia ci stese, prezzi davvero proibitivi alle volte, tanto che ahimè il vecchio zio Mc Donald’s risultava l’unica soluzione in molti casi.
Tranne che per un guizzo geniale in una mensa universitaria dove non certo si mangiava cucina francese ma perlomeno tornavi a casa con le tasche ancora piene.
Qual è il centro universitario più famoso ed importante di Svezia? E’ quello che si trova nella cittadella-campus di UPPSALA. Molti degli studenti di Stoccolma studiano in questo paesino intaccato ed ordinato. Noi trovammo un camping centrale e decidemmo di sostare due notti lì.
La scelta non fu troppo azzeccata perché Uppsala appariva nel mese di Agosto (prevedibile) semi deserta, gli studenti, pochi, stavano in pub addormentati o in cinema vuoti. Solo una grande emozione ci regalò la cittadina: un giorno scorgemmo da lontano l’insegna di una pizzeria chiamata “Pizza Etna”, con grande entusiasmo facemmo irruzione nella pizzeria per scambiare quattro chiacchere con i nostri concittadini ma lì dentro non esistevano catanesi. Solo svedesi. Tra latro dentro, sotto la scritta “Pizza Etna” c’era un murales col Vesuvio. Mangiammo comunque una pizza. Svedese.
Ecco c’eravamo, eravamo pronti per raggiungere il punto tanto agognato: Capo Nord.
Il piano di viaggio prevedeva: raggiungere la città di Narvik, sostare una notte e poi salire verso il punto più alto.
A Narvik c’arrivammo dopo 21 ore di treno che ci fecero piazzare i treni svedesi primi nella classifica dei peggiori scompartimenti europei.
Trovammo un campeggio essenziale e dormimmo per un bel po. Al nostro risveglio la brutta notizia. Una coppia di Firenze che stava proprio per partire alla volta di Capo Nord ci disse che nessun treno portava al sito. La costa è troppo frastagliata, non esistono binari da quelle parti.
La soluzione era prendere un pullman che in 35 ore avrebbe raggiunto il punto più alto. Prezzo? Beh solo 200 mila lire e in più una specie di ticket all’entrata della zona turistica.
Troppo davvero troppo per le nostre già esigue casse. Tra la Danimarca e la Svezia il nostro budget era precipitato vertiginosamente. La notizia ci fu confermata da altre fonti così decidemmo di rinunciare. Il nostro Capo Nord l’avevamo toccato in ogni luogo di quel interrail ed in ogni altro posto che avremmo visitato in poi.
A Narvik, città (che si possa chiamare tale) norvegese più alta, in pieno circolo polare artico, passammo la notte di ferragosto. Mentre in Sicilia si facevano i bagni alle luci dei falò, noi stavamo a 7 gradi vagando per il porticciolo e rifocillandoci con un pasto caldo.
Poi la follia, decidiamo l’indomani di partire da Narvik per salpare nell’arcipelago delle Lofoten. Antiche isole di pescatori, piena di scenari polari e di figure caratteristiche. Patria originale dei Trolls. Il traghetto ci metteva sei ore per arrivare nell’isola più grande: Svolvaer.
Partiti con solo un giubbotto e poco altro il nostro azzardare fu punito ancora una volta; da Svolvaer serviva per forza un automobile per potersi muovere e non ricordo neanche quale cifra esorbitante ci chiesero per il noleggio. Hotel a Svolvaer? Si, certo, ma tutti a 4 stelle.
Prossimo traghetto per tornare a Narvik? Solo alle 7 dell’indomani mattina. Temperatura a Svolvaer? 2-3 gradi con pioggia.
È difficile troppo difficile parlare di quella notte, un fast food ci ospitò per un paio d’ore, poi chiuse. Un pub per altre due, poi chiuse anche quello. Il tempo residuo fino alla partenza del giorno dopo la passammo a riacquistare sensibilità dei nostri arti ghiacciati dal freddo.
Incominciammo la discesa della Norvegia per chiudere il cerchio del nostro Interrail. Le tappe seguenti furono: Trondheim.
Cittadina celebre solo perché la città della squadra di calcio del Rosemborg, dove però ci facemmo una piacevole pedalata con le biciclette che la città mette a disposizione di tutti. Dovevi solo stare attento a non abbandonarla per troppo tempo senno qualcuno se la portava via.
Poi ci spostammo a Oslo, davvero bella la capitale di Norvegia. Rimanemmo 3 giorni e 3 notti.
Il Munch Museum, il Vigeland park, il trampolino di Holmenkollen, il tempo che ci diede tregua furono le cose migliori della città.
Sui giornali solo notizie ed immagini della famiglia reale e per le strade molta confusione.
Ci mettemmo circa otto ore per arrivare a Stavanger, paese celebre per “ospitare” il più alto fiordo di Norvegia: il Preikestolen. Più di 700 metri a strapiombo sul mare. La salita verso il fiordo fu una delle imprese più stancanti dell’intero viaggio, 3 ore e mezza di salite non tanto agevoli anche se meravigliose nello scenario. Durante la scalata vedemmo una capra bloccata s’una roccia che s lamentava. Sembrava un miraggio, non lo era ma quanto meno fu il segnale che eravamo arrivati. Lo spettacolo meritava la fatica. Giungemmo stremati ad inginocchiarsi verso il vuoto. Da lì sopra appariva familiare l’immensità. Consumammo un paio di rullini, non riuscivamo a fermarci, ogni foto non fatta sembrava un delitto, un errore imperdonabile.
Da Preikestolen in giù il viaggio era finito. Eravamo certi di non poter vedere qualcosa che lo superasse in magnificenza.
L’ultima visita spettava a Bergen ed il suo mercato del pesce. Ragazzine con la cuffietta azzurra che vendevano salmone e non solo. Con gli ultimi spiccioli provammo un panino col salmone. Unico.
Bergen era un sito carino e solare, i palazzi di legno e le strade bagnate di brezza ci rimasero impressi.
Tutto il resto fu discesa verso l’Italia: Oslo-Goteborg-Amburgo-Monaco-Napoli
I soldi bastarono a stento, a Napoli potremmo comprarci delle pizzette..